Caillois, Roger, La vertigine della guerra,
Troina (En) - Roma, Città aperta, 2002.

Presentazione di Antonino Frenda
in Ctonia-5, Luglio 2009.

Pólemos kakós è la «mala guerra» che, nell’Iliade (XVI, vs. 490-494), Glauco, «guerriero combattente e gagliardo» (polemistén) deve volere se vuole essere valoroso (eì toús essi). Guerra ed essere costituiscono già da Omero, come più volte è stato ricordato, una condizione ierontologica e non una mera necessità “morale”, come se si attribuissero ai Greci (ancora loro!) o ai popoli antichi in genere, le nostre preoccupazioni, tutte post-democratiche e dal sapore law and order. Questo breve preambolo introduce velocemente al “problema” polemologico in Occidente, cioè alle svariate implicazioni filosofiche, politiche, antropologiche della guerra e del suo statuto non solo “strategico” ma anche “culturale”. Dopo von Clausewitz e De Maistre, si possono riscontrare tre grandi e lucidi polemologi in Ernst Jünger, Carl Schmitt e Roger Caillois. Quest’ultimo, allievo di Durkheim, Mauss e Dumézil, dopo brevi esperienze surrealiste, fonda, nel 1936 e fino al 1939, il College de Sociologie con Bataille e Leiris. Sociologo del sacro, Caillois delinea le sue prime analisi sulla guerra ne L’uomo e il sacro (1939), ampliando compiutamente le proprie intuizioni in La vertigine della guerra (1963) ristampato recentemente da Città Nuova con un’ottima prefazione di Umberto Curi. Guerra e sacro s’inerpicano con Caillois in una vera e propria morfogenesi polemologica: egli individua in Proudhon, Ruskin e Dostoevskij, che «non sono affatto guerrieri» come i grandi apologeti della guerra dei primi dell’Ottocento, i primi profeti della guerra “politica” capace palingeneticamente di rinnovare le comunità e i popoli. La guerra come forma invece, avulsa dai suoi effetti utilitaristici, immediati e sociali, irrompe però nella sfera del sacro, esclusivamente in quanto è guerra. In questo senso Ernst Jünger e Renè Quinton, con la loro “mistica” bellica, preludiano e ripresentificano l’eterno ritorno della festa, altra «mitologia parallela». È qui che emerge fortissimo l’aspetto polemo-antropologico per il quale dobbiamo ancora molto al Maestro francese. L’omologia festa-guerra, lo statuto del guerriero consacrato e la sua tremenda carica sacrale possono aiutarci, se accantoniamo la noblesse esotica o arcaica di archi, frecce e maschere, a concepire la weltanschauung dei massacri etnici e di molti conflitti religiosi, dalla Serbia al Congo sino agli “scontri di civiltà” più recenti, senza tranquillanti umanitario-mediatici: «La via - afferma Caillois - che conduce alla festa e alla guerra si confonde con quella del progresso tecnico e quella dell’organizzazione politica». Lo dimostrano ancora i bombardamenti di città immerse nelle proprie feste tradizionali, o l’impiccagione di dittatori in ricorrenze particolarmente cariche di sacro e attentati dove s’invoca la Spada del Profeta. Più dell’opposizione kalós\kakós, alla quale ci ha abituati l’universalismo irenista e messianico della guerra “democratica”, sono pòlemos e hieròs in verità, che non hanno mai smesso di essere gli occhi acuminati della Vertigine, o di Bellona.