Alessandro Chalambalakis

Appunti sparsi per una favola
postumano-nichilistica della morale

Il nichilismo, forse l’unico vero fantasma che si aggira per l’Europa

 

0.

Ebbene sì: ancora sul nulla. Pensare, scrivere e interrogarsi in merito al nulla dei fondamenti, all’assenza di assoluto, alla storia e alle vicissitudini di questa assenza nella storia e nella cultura occidentale.
Senza entrare troppo nel merito di questioni storico-filosofiche ed ermeneutiche del pensiero nietzscheano sul nichilismo e sulla storia del pensiero in merito al nichilismo in genere, quello che qui voglio invece presentare è una piccola serie di riflessioni a ruota libera, svincolate per quanto possibile da ogni tipo di tecnicismo culturale. Le argomentazioni qui raccolte, a mo’ di appunti, sono tra loro indipendenti e ognuna di esse ha la sua propria direzione, tuttavia affrontano da più angolazioni una stessa tematica le cui sfaccettature sono innumerevoli e difficilmente assemblabili in un discorso unitario. Sfida, quest’ultima, che per ora mi riservo di rimandare.

 

1.

Nichilismo. Il fenomeno si manifesta a partire dall’enorme sviluppo della scienza e della tecnica a sua volta secondo Nietzsche scaturito da una morale della ricerca della verità in ambito conoscitivo che ha finito per mettere inevitabilmente in discussione la verità della morale. Per dirla con un gioco di parole: il fatto di avere una morale della verità ci ha condotti a confutare la verità della morale.
Spesso si tende a contrapporre al presunto nichilismo ideologico i saldi e classici valori della conservazione non cogliendo che è proprio da tali valori conservativi che il nichilismo è stato partorito. Esso nasce in seno alla tradizione morale occidentale precisamente in quanto ne smaschera il senso meramente utilitaristico, conservativo.
Se i cosiddetti valori tradizionali che per secoli hanno guidato l’occidente non hanno più il valore di verità assoluta ciò che rimane è la loro mera funzione conservativa e protettiva. Ma allora, afferma la potenza dell’uomo, che bisogno ho di porre Dio come valore non vero ma utile dal momento in cui posso proteggermi da solo? Abbiamo forse bisogno di bugie a fin di bene? Da tempo ormai l’uomo occidentale ha messo al centro dei suoi valori la verità e per quanto la verità sia spesso esperienza del male non ce la sentiamo di tornare a mentire a noi stessi. La fanciullezza è trascorsa. L’esperienza non può tornare indietro. La mela è stata mangiata e una volta visto in faccia il baratro non ha senso continuare a mentire.

Pietr Claesz, Vanitas quiet life, 1630, olio su tela, 56 x 40 cm.

Se il nichilismo - questa moderna coscienza del nulla, questa contemporanea coscienza di un nulla metafisico, di un nulla oltre la morte, dell’assenza di fondamenti alle più solide convinzioni della società occidentale - ci dice qualcosa di vero, capite che non c’è possibilità di tornare indietro e di tornare a mentire a se stessi. Tantomeno sarebbe auspicabile da un punto di vista paradossalmente morale (dal punto di vista cioè di quella stessa morale della verità).
Dio avrebbe potuto salvarci ma, oltre al fatto che essere salvati è in fondo una noia mortale, nella pretesa di cercare Dio abbiamo invece trovato la genetica e la fisica quantistica e così ora abbiamo una marea di verità relative in più e una valanga di illusioni in meno. Ovviamente le nostre paure sono cambiate anche se l’uomo, non c’è dubbio, è più forte proprio in quanto maggiormente conscio della propria potenza così come della propria impotenza.
Il problema sta nel fatto che non c’è bisogno di verità assolute per questioni di necessità relative (conservazione, protezione, utilità). Eppure da quando l’assolutezza della verità dei valori tradizionali è caduta sembrerebbe (direbbero i conservatori) che le cose siano decisamente peggiorate e che l’uomo stia inesorabilmente scivolando verso il peggio. Ma anche ammesso che questo sia vero dobbiamo evitare di scivolare verso il peggio anche quando il peggio è una conseguenza della verità? Ecco perché la questione fondamentale da stabilire è se il nichilismo sia una verità dell’occidente o una semplice scelta prospettica in mezzo alle altre per il quale l’osservatore è responsabile e in un certo senso colpevole. Il nichilismo è un abbaglio o un guardare in faccia la storia?

 

2.

La morale (in quanto morale della ricerca della verità) ha scacciato la morale (intesa come teologia morale costituita da presunti valori immutabili e universali) e per continuare ad avere coscienza del nulla dei fondamenti deve continuare ad essere morale della verità contro qualsiasi ipotetica illusione. Questo ovviamente nell’ipotesi che la coscienza del nulla abbia ragione. Qui però giunge il paradosso: il nichilismo (inteso come atteggiamento critico e quindi non nella sua forma passiva), per sopravvivere, deve tenere in conto l’esistenza di un valore e cioè del valore oggettivo di verità dell’affermazione del nulla dei fondamenti. Questa paradossalità non si elimina. Questo rappresenta a mio avviso uno dei problemi filosofici contemporanei più brucianti e maggiormente rilevanti. Lo trovo in qualche modo connesso alla paradossalità dell’affermazione relativista che per affermare la relatività di ogni cosa deve presupporre l’assolutezza della validità della sua affermazione. Per semplificare: per dire che tutto è relativo devo presupporre contraddittoriamente che la mia affermazione non lo è. Come direbbe Carmelo Bene, il linguaggio ci fotte.

 

3.

Leggendo la storia degli uomini e delle loro civiltà ma anche guardando all’esperienza personale, risulta davvero lampante come il principale valore dei valori stia nella protezione, nella conservazione, nel cercare sostanzialmente di evitare grossi danni assicurando una più lunga durata possibile ad ogni situazione serena o conveniente. Ma se così stanno le cose allora dobbiamo ammettere che noi dobbiamo proteggerci dalla vita e precisamente da quei momenti in cui la vita si permette, come scrive Bataille, di affermare se stessa fin dentro la morte. Questa funzione protettiva dei valori tradizionali (Dio, la famiglia, i vari tabù, ecc.) è realmente necessaria o siamo abbastanza forti per farcela da soli? Dio, direbbe Nietzsche, non è forse un’ipotesi troppo estrema? Il grado di potenza raggiunto dall’uomo non ci permette oggi di abbandonare quelle antiche catene e di poter camminare con le nostre gambe nella pericolosità? O forse siamo semplicemente ma tragicamente votati ad oscillare batailleanamente tra norma e sospensione di essa. Tra regola ed effrazione. Tra i valori e il loro rovesciamento. Da questo ultimo punto di vista anche se Dio è morto ve ne saranno sempre altri da uccidere sotto altre innumerevoli forme per ora ignote. Tuttavia si accettano scommesse.

 

4.

Costituisce sicuramente un dato di fatto che i valori in società favoriscano la conservazione, l’unità, la coesione e la convivenza. Tuttavia, come si può non prendere atto dell’eterogeneità della società contemporanea? Diventa ovvio che nel nostro contesto storico tali valori di coesione devono il più possibile allontanarsi dall’assolutezza e sapersi relativizzare e offrire la possibilità della diversità. Il pluralismo e il relativismo sono un fatto ed è un fatto che siano stati una conquista. Troppe ferite l’assolutismo ha inferto alla libertà in nome di una presunta verità unica. Ponendoci da un punto di vista biecamente pragmatico e quantitativo si può tranquillamente affermare che l’assolutismo morale abbia fatto più danni di quanti non ne abbia evitati. A mio avviso, senza troppo moralismo filantropico, basta questo semplice calcolo per motivarne l’abbandono.

 

Caspar David Friedrich, Monaco sulla spiaggia, 1808-1810,
olio su tela, 171 x 110 cm, Berlin,
Alte Nationalgalerie.

 

5.

Europa, nichilismo, relativismo e falsa coscienza cattolica. Pur di far sopravvivere la morale cristiana la si è avvicinata persino all’ateismo negando Cristo stesso. Curioso modo di affermare Dio: negandolo. In realtà modo abbastanza originale e in qualche modo buffo e simpatico di ignorare Dio in quanto Dio ma tenerselo tutto sommato buono in senso politico. Mi riferisco alla categoria dei cosiddetti cristianisti, i cosiddetti atei cristiani o atei devoti che, dai primi anni del Duemila, hanno iniziato a prendere piede in Italia.
Queste categorie, espressioni di una difesa socio-culturale della Chiesa in senso esclusivamente etico e assolutamente non fideistico, altro non sono che espressioni formale di un nichilismo che non ha riconosciuto se stesso. Si mantiene l’involucro cristiano per una questione di conservazione (o di controllo), per una forma che consente determinati presupposti e determinati valori sociali ma non ci si accorge che tale forma racchiude precisamente un vuoto, un nulla di quei valori, un’assenza di fondamento di quei valori. Gli atei devoti sono l’espressione di un nichilismo (che è un fatto, un fenomeno e non una opinione) che rifiuta se stesso in quanto, in ultima istanza, teme quel vuoto, quel nulla, quell’abisso in cui invece il pensiero di Nietzsche ci invita a gettarci per superare il nichilismo stesso. Ecco, in questo senso il nichilismo di queste forme di pensiero è nietzscheanamente una forma di nichilismo passivo.

Ma si badi bene, sono tante le argomentazioni dell’ambiente cattolico impantanate in una falsa coscienza e in un nichilismo inconsapevole: mi riferisco per esempio a quando Benedetto XVI invita al dialogo pacifico tra le religioni e contemporaneamente condanna il relativismo. Quale assurdità è mai questa? Al fine di poter dialogare e rispettare la/le divinità altrui è ovviamente necessaria una certa quantità di relativismo culturale. È precisamente il relativismo, il prospettivismo che distaccandoci dall’assolutismo ovvero dalla presunta assolutezza delle nostre idee ci permette di rispettare i credi altrui e di dialogare mettendo in discussione noi stessi tramite l’altro. Per poter fare un’apologia del dialogo tra diverse fedi non si può dunque prescindere da un certo relativismo consapevole sostanzialmente di non avere nessuna verità assoluta e universale in tasca. Ed eccoci al punto. Quale cattolicesimo e dunque quale universalismo (katholikòs = universale), se non falsamente cosciente di sé, può fare un discorso simile? Il punto è che il pluralismo dei valori e dunque la loro relatività e prospetticità (e dunque il loro nulla, il loro nihil dal punto di vista universale e assoluto) è un fatto nella società contemporanea e questi signori tentano rocambolescamente e goffamente di tenere insieme capra e cavoli. Questo mio discorso ovviamente presuppone un’estrema vicinanza tra quello che ho chiamato relativismo, prospettivismo e nichilismo. Ma non è forse la relatività dei valori, la loro contingenza storica, geografica, sociale ad avere scavato il nulla sotto le pretese assolutistiche di universalismo? Non è forse il fatto della pluralità pragmatica dei valori ad aver aperto all’assenza di fondamento assoluto di ogni valore?

Altra questione in cui a mio parere si è potuto ravvisare la falsa coscienza cattolica è stata la pretesa d’inserimento di riferimenti alle radici cristiane nella costituzione europea. Non mi voglio soffermare sull’argomento a maggior ragione più dibattuto circa la laicità della costituzione. Argomento che personalmente do per scontato. E nemmeno voglio addentrarmi in merito alle motivazioni storiche a sostegno dei ruoli altrettanto determinanti di altre culture quali quella greco-romana e la fondamentale presenza araba nell’Europa medievale. Tantomeno voglio argomentare sottolineando quanto, in ultima istanza, da un punto di vista europeo, siano stati maggiormente rilevanti i cosiddetti valori della modernità (in particolare i principi illuministici) piuttosto che le culture antiche, tardo-antiche e medievali. Quello che mi interessa portare brevemente alla luce è il fatto che il cattolicesimo, quell’osannato universalismo che spezzò le logiche della sacralità tribale, relative all’ethos di ogni popolo, alla nazione e quindi alle differenze di ogni popolo (ricordate? Cristo, contrariamente ai localismi pagani, venne per tutti, indistintamente rispetto a etnia, nazione, tribù, usanza e costume di ognuno di noi su questa terra), ora vuole definire le radici culturali in senso politico-costituzionale dell’Europa e dunque di una specifica unione di nazioni e costituirsi pertanto egli stesso come radice culturale specifica di un gruppo sociale differente dagli altri. Vorrebbe dunque costituirsi come quell’ethos che pretendeva di avere spezzato. Ora, un universalismo che incoerentemente pretende di realizzarsi come ethos, come costume di un popolo o di una unione tra popoli è esattamente un universalismo che non crede a se stesso in quanto egli stesso sta relativizzando la sua presenza nel mondo a determinate prospettive e contingenze storico-culturali. La stessa rivendicazione delle origini cristiane della cultura europea suona pertanto relativista, anti-cattolica in quanto anti-universalista, nazionalistica e dunque tribale, prospettica, relativa ad un ethos e non a quel suo tanto voluto superamento.

Tali capacità di adattamento alla modernità da parte del cattolicesimo si fondano anch’esse (anche se, ovviamente, non verrà mai e poi mai ammesso) sulla consapevolezza della pluralità dei valori, sulla relatività storico-geografica delle fedi, su quello stesso prospettivismo moderno che ci ha condotti a guardare in faccia il nulla dei fondamenti assoluti. Quello stesso prospettivismo dal quale intellettuali più onesti hanno avuto il coraggio di trarre le logiche conseguenze e implicazioni culturali senza mascherarsi dietro falsi idealismi in realtà così tanto accomodanti e pronti a sporcarsi ipocritamente le mani con una modernità e una contemporaneità che non si stancherà mai di smentirli.

 

Alessandro Chalambalakis - los@ctonia.com