| Giuseppe Bornino Per una critica primitivista della civilizzazione 
 
 Il 
        Dizionario Primitivista di John Zerzan non è cinto da alcuna fascetta, 
        ma funziona bene come libro. L'agilissimo libello intende spogliare alcuni 
        termini da ataviche e ingiustificate etichettature. «Tendenza, più o meno codificata a livello sociale, ad affrontare la realtà a seconda dell'atteggiamento più o meno cordiale degli altri; tirannia del decoro che impedisce di pensare e agire autonomamente; modo di interagire basato sull'assenza di giudizio critico o di autonomia». Buonismo è innanzitutto una risposta ipocrita all'ipocrisia altrui, una tendenza ad imbastire le nostre azioni sulla scorta delle altrui aspettative, delle altrui pretese. Buonista è il fascino discreto della borghesia, buonista è il Panopticon. Buonismo è eteronomia, schiavitù, filisteismo. Buonista è ogni forza centripeta, ogni forza che ci comprime verso l'indifferenziato centro. Ed è proprio quando si giunge presso il centro che il fulcro svanisce. L'esistenza non ha bisogno di un equilibrio di forze, di armonia. La creazione esiste solo sotto l'egida della contesa. Il buonismo è anti-dialettico in quanto non si misura con la negazione ma la precede eludendola. Buonisti sono i regimi totalitari, con i loro apparati spettacolari, le loro vuote insegne, i loro riti collettivi. Buonista è l'ideologia, nel senso deteriore del termine, poiché laddove c'è falsa coscienza si annida l'annichilimento del giudizio critico. Buonista è il pensiero metafisico che pensa per noi senza un nostro consenso. Buonista è ogni modello comunicativo imperniato su un codice: l'interazione genuina non abbisogna di regole precostituite che sviliscono la creatività dei parlanti. Buonista è tutto ciò che non è arte. «Il buonismo ci tiene tutti al nostro posto, a riprodurre confusamente tutto ciò che in apparenza aborriamo» afferma Zerzan. 
 La seconda voce che incontriamo, proseguendo il nostro cammino all'interno di questo atipico dizionario, è 'tecnologia'. E così recita: «L'insieme di divisione del lavoro/produzione/industrialismo e il suo impatto su di noi e sulla natura. La tecnologia è la somma delle mediazioni fra noi e il mondo naturale e la somma delle separazioni che mediano fra noi e gli altri. È lo sfruttamento e la tossicità necessari per produrre e riprodurre lo stato di iperalienazione in cui languiamo. È il tessuto e la forma del dominio ad ogni livello della gerarchia e della mercificazione». La 
        tecnologia non può essere definita meramente come un'applicazione 
        della scienza poiché la posta in gioco è molto più 
        alta. Si tratta del rapporto intercorrente tra l'uomo e la natura. Della 
        tecnologia conosciamo a memoria le ricadute in termini scientifici ma 
        il più vigliacco silenzio attornia un interrogativo ben più 
        pressante: che ne è della natura? Quali costi comporta il progresso, 
        reale o presunto tale? Gli apparati tecnologici hanno modificato il nostro 
        rapporto con la natura trasformando radicalmente il ruolo di quest'ultima 
        all'interno del cosmo. E l'individuo? Anche l'uomo è merce di scambio, 
        fondo direbbe Heidegger, cui attingere in nome dello sviluppo. 
        L'essere-fondo coincide con uno stato di iper-alienazione 
        che il cieco processo capitalistico non fa altro che produrre e riprodurre. 
         Proseguendo il nostro itinerario incontriamo l'abusato termine 'cultura'. La definizione che ne dà Zerzan è la seguente: «Termine comunemente usato per definire l'insieme di costumi, idee, arti, modelli, eccetera, di una determinata società. È spesso indicato come sinonimo di civiltà, il che ci ricorda che anche la coltura - come l'addomesticamento - fa parte di questo concetto. Nel 1960 i situazionisti affermavano che "la cultura si può definire come l'insieme dei mezzi tramite i quali la società pensa se stessa e si mostra a se stessa". Accalorandosi, Barthes rilevava che essa è "una macchina che mostra desideri. Desiderare, desiderare sempre, ma mai capire". 
 Inutile negarlo, oggi il termine cultura evoca spettri mai troppo lontani. Puzza di metafisico, di dominio, di gerarchie, di quadri e cornici. È intollerabile parlare di cultura nazionale. Cultura è uno di quella sfilza interminabile di termini che un linguaggio-macchina, poco poetante, ci ha imposto, imprigionando la nostra creatività in vieti schematismi. Cultura è un'ipostasi da cui discendono fantasmi stirneriani. La lezione - anche se fa specie chiamarla così - situazionista ci insegna che la cultura è auto-referenziale, un mezzo mediante il quale la società si specchia. La cultura, allora, si presenta come un lampante esempio di trascendenza immanente in quanto l'uomo, che vuol farsi Dio, si adopera quotidianamente nel tentativo di portare il cielo in terra. La cultura è vita mediata che genera cinismo. Al fine di abbattere il mito della cultura, sarà necessario ripristinare la vita nella sua immediatezza. In questo, il buon vecchio Nietzsche può esserci oltremodo utile nel trasvalutare i vecchi valori e destituire di senso i vuoti simboli. Le forme di vita non hanno più intenzione di tollerare l'elemento simbolico in quanto il simbolico è repressivo. E ciò che reprime impedisce l'esplosione delle forze vitali. Sostituire quindi il concetto dinamico di forza a quello statico di cultura. Segue la definizione di 'selvatico' che così recita: «Selvaggio, che esiste allo stato di natura, come gli animali o i vegetali che vivono e crescono in libertà; che è tornato allo stato selvaggio dopo l'addomesticamento». Potremmo 
        aggiungere, sulla scorta della definizione di 'cultura', che selvaggio 
        è colui che ha rinunciato alla repressione del simbolico, all'eteronomia 
        e all'addomesticamento per fare ritorno ad una dimensione originaria. 
        Lo stato di natura di cui parla Zerzan somiglia molto di più a 
        quello dipinto da Rousseau che da Hobbes; è uno stato di natura 
        dove tutte le forme di vita hanno pari dignità e crescono senza 
        vincoli, liberamente, sprigionando le loro forze vitali. Allora, è 
        da uno stato di natura di tal fatta che bisogna ripartire per riconsegnare 
        la vita alla vita. «Possiamo continuare a seguire passivamente la 
        strada dell'addomesticamento e della distruzione totale» dice Zerzan, 
        «oppure svoltare in direzione della rivolta gioiosa, dell'abbraccio 
        appassionato e selvaggio della vita, che aspira a danzare sulle rovine 
        di orologi e computer, e di quella mancanza di immaginazione e volontà 
        chiamata lavoro». Cos'altro può essere la gioiosa rivolta 
        se non l'autoaffermazione della vita di nietzscheana memoria? Cos'altro 
        può contrassegnare l'appassionato e selvaggio abbraccio della vita 
        se non l'egemonia di Dioniso? Chi altri può danzare sulle 
        rovine di orologi (che in primo luogo costituiscono la scansione del tempo 
        lavorativo) e macchine (che principalmente sono invece i mezzi adoperati 
        nel lavoro) se non l'oltre-uomo? La mancanza di quale specie di volontà 
        si lamenta se non quella della volontà di potenza?  «Parcellizzazione delle mansioni volta ad ottenere la massima efficienza di risultato, caratteristica della fabbricazione industriale; aspetto cardinale della produzione. Frammentazione o riduzione dell'attività umana in compiti distinti e specifici, all'origine dell'alienazione; specializzazione di base che fa comparire e sviluppare la civiltà». 
 La 
        divisione del lavoro ha da sempre contribuito a scavare un profondo solco 
        tra gli esperti e i non-esperti, creando una società settaria all'interno 
        della quale gli individui somigliano a tante pedine mosse dall'alto. L'iper-specializzazione 
        è figlia diretta della divisione del lavoro. Il dualismo filosofico 
        stesso potrebbe essere considerato figlio della diffusione della categoria 
        astratta di lavoro.  Altro termine presente nel libretto di Zerzan è 'progresso' e del quale si dice: «Sviluppo storico, in termini di avanzamento o miglioramento. Avanzamento della storia o della civiltà, come in un film dell'orrore o in un'esperienza in cui si sfiora la morte». Ci 
        troviamo di fronte a una delle definizioni più nette ed icastiche 
        formulate da Zerzan. Il progresso come avanzamento storico che ci conduce 
        in limine mortis. Viene da chiedersi: forse che la storia del 
        progresso è in realtà quella del capitalismo? Forse che 
        l'esperienza di pre-morte altro non è che il compimento della profezia 
        marxiana? L'idea di progresso va di pari passo con quella di cultura. 
        Due termini che paiono fatti apposta per prendersi per mano. La cultura 
        è sempre progressista, così come il capitalista è 
        legato all'idea di un' illimitata accumulazione di denaro. Per lui il 
        progresso consiste in questo. È necessario spogliare la nozione 
        di progresso da facili abiti ideologici, per riconsegnarla alla storia 
        in tutta la sua nudità. Progredire è avanzare, sì, 
        ma verso dove? La borghesia cammina, macina chilometri, ma qual è 
        la sua meta? Luis Buñuel docet. «C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta». Zerzan si sofferma poi su due concetti chiave da sempre in combutta tra loro; ovvero 'comunità' e 'società'. Della prima viene detto: «Insieme di persone che hanno gli stessi interessi. Aggregazione di organismi con relazioni reciproche. Concetto evocato per instaurare la solidarietà, spesso quando mancano le basi per l'aggregazione o quando il contenuto reale di tale aggregazione contraddice l'obiettivo politico dichiarato dalla solidarietà». 'Comunità'è termine tanto evocato quanto elusivo. Comunità è un concetto usa e getta, una panacea, un coniglio tirato fuori dal cilindro al momento del bisogno. C'è voglia di comunità, ma non di reale aggregazione. La solidarietà propria di ogni comunità è solo fittizia e buona per lo sloganismo. Le comunità sono figlie della civilizzazione e quindi anche sue schiave. Buoni esempi di comunità sono la religione, la nazionalità, il lavoro, la scuola, la proprietà. Difendere queste comunità così come sono oltre a suonare come reazionario è un atto cieco di fede nei confronti della cultura dominante, del tempestoso progresso. Non possiamo scendere in trincea per abbattere cultura e progresso e, insieme, evocare una comunità. Sarebbe paradossale e contraddittorio. Allora, dice Zerzan, «solo una comunità negativa, esplicitamente basata sul disprezzo per le categorie della comunità esistente, è legittima e appropriata per i nostri scopi». 
 Della società invece afferma: «Dal latino socius, compagno. Insieme organizzato di individui e gruppi in rapporto di relazione reciproca. Organizzazione totalizzante, che avanza a spese dell'individuo, della natura e della solidarietà umana». Se la comunità almeno finge di avere a cuore le sorti dell'individuo, la società non si preoccupa nemmeno di apparire solidale. È un’organizzazione totalizzante, un sistema, un apparato. Il sistema non lascia fuori nulla, si interessa di tutto e lo divora. Il successo di una società è basato su una forte idea di progresso, ma l'avanzamento - ormai lo abbiamo imparato - non sempre ci conduce presso lidi tranquilli. Chi ne fa le spese è il singolo che è coinvolto in una serialità senza via d'uscita mirante solo a riprodurre sempre di nuovo se stessa. Il tempo della società è lineare, quello del pensiero circolare. L'organizzazione societaria paralizza l'impulso erotico, estetico e rafforza la sua dipendenza da consumo e lavoro. Non c'è spazio nella società per la molteplicità del senso e dei sensi. La società non siamo noi, la società è solo uno tra i tanti specchi - forse il più impietoso - attraverso il quale osserviamo la siderale distanza intercorrente tra governanti e governati, tra paese legale e paese reale. Il Dizionario si conclude con l'esame del termine 'reificazione' di cui viene detto: «Dal latino res, cosa, reificazione significa essenzialmente cosificazione». Martin 
        Heidegger ha dedicato diverse righe al concetto di cosa e ne 
        ha parlato in termini di mera utilizzabilità. La cosificazione 
        è la riduzione dei rapporti umani a sterili rapporti di utilizzabilità. 
        La brocca è alla-mano, ma l'uomo non può esserlo. 
        La moderna società ha infranto i confini tra l'essere 
        dell'esser-ci e l'essere cosa della cosa. Per Lukács 
        la reificazione è invece una forma di alienazione causata dal feticismo 
        della merce dei moderni rapporti di mercato. Il feticismo è l'anticamera 
        della spettacolarizzazione di cui parla Guy Debord. Una società 
        dello spettacolo è una società dove le relazioni hanno tutte 
        subito un processo di reificazione, sono diventate oggetti che rimandano 
        a rapporti tra altri oggetti.  Giuseppe 
        Bornino - gbornino@gmail.com |