Luigi Sola

Proust, verità e lettura

 

Alla ricerca del tempo perduto è allegoria di un cercare, da parte dell’autore medesimo, una verità incondizionata, la cui essenza sta nell’essere inserita all’interno di un contesto concreto e segnico che la determina come tale; ora, occorre determinare quali sono le prospettive che Proust intende adottare al fine di portare a coscienza la verità.

Marcel Proust
(Parigi, 10/07/1871 – Parigi, 18/11/1922)

Innanzitutto, è necessario rilevare che la Recherche, come molti critici letterari hanno sostenuto per diverso tempo, non è la semplice ricerca della memoria o del ricordo, seppur involontari; sicuramente, quest’ultimi due aspetti dell’opera proustiana sono di notevole consistenza e rilevanza, ma appaiono essere funzionali al cammino che conduce alla verità. Sono mezzi d’attuazione e comprensione di quest’ultima.
Secondariamente, è la natura del segno a innescare la verità, ovvero è quest’ultimo ad attrarre l’attenzione dell’osservatore che lo interpreta secondo delle istanze provenienti dal segno medesimo; in questo modo, chi si accinge a comprendere è inserito all’interno di un contesto segnico che determina la verità secondo una prospettiva prettamente concreta, non astratta. Con quest’ultima affermazione s’intende sostenere che, prima di determinare un qualsiasi tipo di conoscenza, è necessario partire da un certo oggetto, un certo mondo - entrambi materiali -, che determino la verità; all’opposto, un approccio astratto ad essa è connotato da un processo inverso, che forma la conoscenza a partire da contenuti extra-materiali, riconducibili all’intelligenza (o pensiero) come unico strumento di apprendimento della verità.

Proust opta sicuramente per una modalità di ricerca del vero concreta, fondantesi sulla validità segnica dei contesti che, di volta in volta, possono presentarsi a colui il quale si accinge ad interpretare il significato che non deriva semplicemente dai segni, ma sono essi stessi a suscitare e impostare l’interpretazione. Pertanto, il concetto base che fonda l’idea proustiana di verità è quello di contingenza; infatti, è la casualità dei contesti di volta in volta in questione a suscitare, per chi vi è coinvolto, un’interpretazione segnica che rappresenta, incondizionatamente, l’essenza della verità nella misura in cui non c’è nulla di più elevato che interpretare. Lo scrittore francese afferma, quindi, la necessità di intendere alla stessa stregua verità e interpretazione. Solo colui il quale interpreta dice il vero.

Tuttavia, appare evidente che un tale modo di concepire la verità è, essenzialmente, paradossale, in quanto utilizza elementi contingenti e casuali per costituire la necessità, la quale risulta essere connotata secondo una modalità costrittiva; ossia l’essere necessario della verità dipende dalla casualità della presenza di determinati oggetti o mondi che recano seco dei segni producenti la verità. Che ruolo ha, dunque, il pensiero - ovvero la capacità di comprensione dei segni finalizzata all’interpretazione - in questo movimento dialettico che parte da elementi totalmente casuali e giunge, al termine del processo gnoseologico, alla capacità d’intenderli come necessari? È il pensiero che determina la verità-necessità oppure esso è un risultato posteriore il cui scopo è valutare l’interpretazione segnica?

Secondo Proust il compito del pensiero riguarda esattamente la seconda valenza, ossia è un’istanza a posteriori che deve subentrare soltanto dopo un certo livello; esattamente nel momento in cui il contesto oggettuale e materiale, tramite i segni che provengono da essi, dà adito di ricavare una verità che si attua costringendo chi subisce il segno ad interpretarlo. Ancora una volta, l’essere necessario della verità deriva dal caso, o meglio deriva da come il caso medesimo ha disposta la presenza di determinati oggetti o mondi che condizionano chi interpreta a giungere alla verità, la quale, dunque, soltanto in modo ultimo, può essere ritenuta il risultato di un processo di pensiero logico-razionale. Quindi, quest’ultimo può agire volontariamente dopo che il contesto segnico ha suscitato, forzatamente e involontariamente, un interesse a concepire la verità come interpretazioni dei segni; al pensiero, pertanto, spetta il compito di portare a coscienza questa valenza interpretativa del vero, sancire quest’ultimo come interpretazione segnica.

Ora, secondo Proust, i mondi producenti segni sono essenzialmente tre, e ad ognuno di essi corrispondono oggetti e segni specifici, la cui appartenenza ad un mondo implica la non appartenenza ad un altro.

«Il primo mondo della ricerca è quello della mondanità».[1]

La connotazione fondamentale di quest’ultimo è quella di emettere segni che svolgono la funzione di sostituire un’azione o un pensiero. In sostanza, il segno materiale specifico di questo mondo «non rimanda a qualche altra cosa», nella misura in cui esso «ha usurpato il valore presunto del suo senso»[2] (i gesti [segni] mondani riguardano eminentemente le movenze abitudinarie di alcuni personaggi della Recherche, i quali appartengono alla cosiddetta vita mondana francese coeva agli anni in cui visse Proust).
Tuttavia, il segno in questione risulta essere vacuo, fittizio, in quanto esso non rimanda mai ad un senso altro rispetto a sé, nella misura in cui esaurisce il senso possibilmente interpretabile nella propria materialità segnica; in questo modo, segno e senso coincidono perfettamente.

Il secondo mondo è quello dell’amore che:

«Nasce e si nutre d’interpretazione silenziosa. L’essere amato appare come un segno […]: esprime un mondo possibile a noi sconosciuto. L’amato implica, include, imprigiona un mondo che occorre decifrare, e cioè interpretare […]. Amare è cercare di spiegare, di sviluppare questi mondi sconosciuti che restano avviluppati nell’amato. Per questo ci è tanto facile innamorarci di donne che non appartengono al nostro e neppure al nostro tipo».[3]

Che cosa determina, dunque, in ultima analisi, l’amore? Essenzialmente, esso è produzione di gelosia poiché i segni di preferenza (carezze, attenzioni, ecc.) che l’amato/a rivolge all’amante esprimono dei mondi possibili ai quali il secondo non appartiene e in cui altri potrebbero essergli preferiti. L’amore, pertanto, risulta essere strutturalmente contraddittorio in quanto:

«I mezzi [sui quali l’amante conta per preservarsi] dalla gelosia sono gli stessi che alimentano questa gelosia, conferendole una specie di autonomia, d’indipendenza rispetto [all’amore dell’amante]».[4]

Gustave Klimt,
Nuda Veritas (particolare), 1899.

Di conseguenza, i segni amorosi non possono che apparire ingannevoli, ossia la loro connotazione principale è quella di nascondere l’origine dei mondi ignoti da cui tali segni prendono significato; l’amore è menzognero, conduce sempre ad un interpretazione del contesto segnico il cui risultato è la cosificazione escludente dell’«amare senza essere amato»[5]. L’amante che si accinge ad interpretare il gesto affettuoso dell’oggetto del proprio desiderio come prova del suo/a interesse, in realtà, nel momento stesso in cui è desiderato, è anche respinto. E questo nella misura in cui il mondo erotico-amoroso, per propria essenza, converge vero il mondo di Gomorra «che […] non dipende da questa o da quella donna (benché una donna possa incarnarlo meglio di un’altra), ma è la possibilità femminile per eccellenza, come un a priori svelato dalla gelosia»[6]. L’amore, in Proust, è dunque, essenzialmente, una struttura d’indifferenza coattiva escludente che pone l’amante al servizio dell’amata, senza che ella si ponga, nei confronti del primo, in un’ottica di reciprocità d’affetto; i gesti che, perciò, l’amata compie sono semplicemente movenze atte ad ingelosire colui il quale crede d’essere corrisposto, mentre, in verità, ella è interessata soltanto ad aprirsi molteplici possibilità d’interessamento indirizzate verso altri probabili amanti che, indubbiamente, potrebbero essere sottoposti allo stesso meccanismo reificante ed escludente a cui è continuamente sottoposto l’amante attuale.

Dunque, lo sfondo sul quale si muove la macchina amore è, indubbiamente, caratterizzato da elementi impositivi che costringono l’amante ad assumere una posizione servile nei confronti dell’amata, la quale, invece, può godere di tutti i piaceri che l’assoggettamento involontario dell’amante può offrirle. Ella, infatti, si circonda di innumerevoli pretendenti; li accetta, li respinge, li illude, gioca con loro, li pone al proprio servizio affinché siano una proiezione di sé, ossia una proiezione concreta del proprio esercizio sadico di essere capace di recare gelosia nei e tra i pretendenti. L’amata funge da catena di montaggio significante che muove i pezzi dell’ingranaggio per sé, per accrescere indefinitivamente il proprio potenziale di condizionare gli amanti come pezzi pre-disposti a funzionare per la catena centrale che li significa in un contesto di gelosia alienante il quale, a sua volta, esclude gli amanti dalla possibilità di trarre un godimento immediato dai gesti di lei. Catena di montaggio e pezzi dell’ingranaggio sono un tutto unico nel quale i secondi vengono mossi dalla prima affinché producano quella gelosia necessaria a creare quel mondo d’interpretazione dei segni che, per l’appunto, garantisce all’amata (femme fatale) il proprio essere al centro dell’attenzione, il proprio formare sentimenti di gelosia. Difatti, paradossalmente, quest’ultima non dipende tanto da come si atteggia l’amata quanto da come i suoi gesti vengono interpretati dagli amanti-pretendenti; nello specifico, la gelosia deve essere intesa alla stregua di una creazione da parte di quest’ultimi nella misura in cui i presunti gesti amorevoli che innescano il suddetto sentimento risultano esser gelosia solo in quanto interpretazione.

Ma, se così stanno le cose, allora, come è possibile che da una libera traduzione di un contesto segnico amoroso derivi una sorta di meccanismo escludente che impone all’amante la sofferenza di non essere corrisposto? Come, dunque, la contingenza dell’interpretazione implica una verità incondizionata consistente, in modo essenziale, nella natura primigenia escludente della donna come oggetto del desiderio maschile? Proust, infatti, sostiene che la verità incondizionata (necessaria) proviene dal caso, dalla contingenza della presenza di un oggetto (o mondo) che esercita un’attrazione forzata su chi si accinge a rapportarsi ad esso; tale attrazione produce un ulteriore processo consistente nell’interpretare i segni emergenti da quel oggetto che ci costringe a ricavare la verità dall’interpretazione. Dunque, verità come interpretazione. Tuttavia, per quanto concerne l’oggetto erotico-amoroso, non potrebbero determinarsi processi ulteriori capaci di innescare differenti sentimenti - diverse interpretazioni dei segni - che si pongano in alternativa, nonché in una possibile opposizione, rispetto alla gelosia[7]? L’oggetto erotico potrebbe, pertanto, determinare dinamiche sadiche o masochistiche; la gelosia sarebbe un sottoprodotto di una certa forma di masochismo che porta l’amante a rendersi al tal punto servizievole da auto-cosificarsi, da rendersi oggetto passivo di assurde pretese di una donna la quale (grazie alla propria consapevolezza di essere capace di escludere, come possibili pretendenti innamorati, tutti gli amanti in quanto l’amata è conscia del fatto che potrà disporre, in ogni caso, di essi come esseri cosificati da sé) non determina i soggetti dell’interpretazione, ma determina oggetti già interpretati. Ossia: l’oggetto erotico femminile del desiderio maschile è una forma di condizionamento radicale che struttura gli amanti a pensarsi come proiezioni funzionali dei gesti falsamente affettuosi di colei la quale è già consapevole di poter fare affidamento su delle cose che non pensano, che sono il semplice prodotto di movenze lusinghiere le quali inducono negli amanti sentimenti masochistici. Quindi, l’oggetto - o mondo - amoroso condiziona, sì, la propria interpretazione costruente la verità dei segni, ma, al contempo, il contesto segnico che emerge da esso implica, da parte dell’amata, una conoscenza pregressa di come agirà il proprio oggetto di realizzazione di sé, la quale, indubbiamente, limita l’elemento interpretativo che, secondo Proust, è la base per la costruzione della verità incondizionata.

Ora, si è delineato dettagliatamente una certa struttura relazionale binaria amorosa: un oggetto erotico attraente il desiderio maschile e un oggetto masochista funzionale che determina la possibilità del suo medesimo assoggettamento involontario nel momento stesso in cui decide di conquistare la prima tipologia d’oggetto (l’amata). Tuttavia, appare evidente che non si tratta di un rapporto soggetto-oggetto in cui l’amante, cogliendo determinati gesti dell’amata, possa trarre beneficio sentendosi appagato dalla sua complicità reciproca, bensì si tratta di una relazione puramente oggettuale in cui anche l’amata - intenzionata a svolgere un ruolo di comando e condizionamento in prima persona, ovvero in quanto soggetto -, in realtà, alla stessa stregua dell’amante, è soggetta anch’essa a una dinamica di cosificazione consistente nella volontà dell’amante di averla tutta per sé. Infatti, la disposizione dell’oggetto erotico è sempre disposizione cosale, volontà di potenza di potere usufruire dell’amata come oggetto morto che sia in grado di recare all’amante il massimo godimento possibile. Tuttavia, come si è già ampiamente sostenuto, l’amante medesimo subisce un processo di reificazione che lo conduce ad essere una mera proiezione funzionale dei desideri della femme fatale. Ora, è ovvio che l’oggetto erotico-amoroso differisce dalla prima serie di oggetti (mondi) presi in considerazione (la mondanità), nella misura in cui esso suscita una stimolazione dell’interpretazione del contesto segnico di gran lunga più complessa di quella degli oggetti mondani; ciò nonostante, in conclusione di questa breve riflessione sul mondo amoroso in Proust, occorre domandarsi il motivo per cui tale complessità, invece di produrre un più alto grado di verità, in realtà, sia il presupposto per una cooriginaria cosificazione dei due corpi protagonisti (amante e amata) che comporta, sì, il raggiungimento di una nozione di vero, ma, contemporaneamente, quest’ultima non è mai la libera interpretazione del contesto segnico derivante dalla casualità della presenza di oggetti che forzano la produzione della verità.

Ora, non è, forse, possibile che il contesto segnico erotico-amoroso, prima ancora che amante e amata si rapportino ad esso, sia socialmente già costruito in funzione di una modalità d’intendere la relazione amorosa secondo una prospettiva reificante che, come una sorta di memoria involontaria coattiva (inconscia), induca amante e amata a considerarsi alla stregua di mere merci da utilizzare per potere accedere all’interno di quel mondo misterioso di cui Proust aveva già rilevato il carattere alienante? Accedere all’amore non equivale, forse, accedere all’arcano mondo delle merci? Non implicano entrambi l’utilizzo di un valore di scambio astratto stabilito dai rapporti di potere sociali? Accedere all’amore attraverso un corpo di donna (o di uomo) standardizzato socialmente non equivale, forse, alla partecipazione al mondo economico attraverso le merci? Corpo standardizzato e merci non posseggono, infatti, entrambi, un valore astratto che condiziona il rapportarsi all’oggetto erotico o materiale secondo una prospettiva mediata che funge da filtro psicologico determinante la modalità di recepire il rapporto nei riguardi del corpo umano oppure del corpo economico?

Si giunga, ora, al terzo ed ultimo mondo. Ovvero:

«Quello delle impressioni o delle qualità sensibili. Avviene che una qualità sensibile ci dia una strana gioia […]. Così percepita, la qualità non appare più come una proprietà dell’oggetto che la possiede attualmente, ma come il segno di un oggetto completamente diverso, che dobbiamo tentare di decifrare […]. È come se la qualità racchiudesse […] l’anima di un oggetto diverso da quello attualmente da lei designato. Questa qualità siamo noi a svilupparla […]».[8]

Gli oggetti di questo mondo (nella Recherche si trovano diversi esempi della tipologia d’oggetti in questione: campanili, alberi, lastricati, salviette, rumori, ecc.) sono sostanzialmente materiali ma, nonostante ciò, risultano essere maggiormente veritieri rispetto a quelli mondani e amorosi - essenzialmente fittizi e mendaci - nella misura in cui forniscono gioia, meraviglia; i contesti segnici implicati da tali oggetti risultano essere «pieni, affermativi, esultanti»[9]. Tuttavia, una volta svelato il senso profondo di tali contesti segnici, quest’ultimi restano intrappolati all’interno di uno sviluppo e una spiegazione eminentemente sensibili i quali non permettono di cogliere l’essenza primigenia di tali significati:

«[…] il loro senso [quello degli oggetti presi in considerazione da Proust nella Recherche] significa Combray, fanciulle, Venezia o Balbec […]. [Tuttavia, essi] non sorgono come il prodotto di un’associazione di idee [in grado di fornire un senso immateriale a elementi materiali], ma in persona e nella loro essenza».[10]

Nonostante ciò, non si è ancora compreso «in che cosa consista questa essenza ideale»[11]. Solo l’arte, secondo Proust, è davvero capace di dare un senso autenticamente ideale (immateriale) ai segni, i quali, in un contesto estetico, rimandano a un significato immediatamente essenziale capace di trascendere la propria materialità annullandola nel valore ideale che tali segni esprimono[12].

René Magritte, Il doppio segreto, 1927.

Dopo aver delineato i principali elementi caratterizzanti l’idea proustiana di verità, occorre stabilire in che rapporto essa stia con la lettura. Quest’ultima è generalmente associata, da Proust, a luoghi interni (stanza da letto, antro ecc.) che si contrappongono a un mondo esterno (nonché solare) connotato da elementi diametralmente opposti rispetto a quelli della lettura; infatti, mentre il primo è contraddistinto da frescura, oscurità e riposo, il secondo, invece, è caratterizzato da calore, luminosità e attività. Tuttavia, tali proprietà antitetiche si mescolano, si determinano reciprocamente e, in tal modo, instaurano un sistema di scambi atto a conciliare i due mondi in opposizione.
Ora, che cosa comporta questo mescolamento di segni? Innanzitutto, esso mette in rilievo il binomio verità-errore, il quale corrisponde, rispettivamente, al mondo della lettura (per quanto concerne la verità) e a quello del mondo esterno (per quanto concerne l’errore); dunque, la verità risulta essere qualcosa di intimo, assolutamente privato; totalmente irrelata all’esteriore. Da qui, la necessità di un contatto (reso attraverso l’utilizzo, da parte di Proust, di alcune figure retoriche quali la metafora, la metonimia e la sineddoche. Ad esempio: «quella buia frescura della mia camera stava al pieno sole della strada come sta l’ombra al raggio, vale a dire come esso luminosa») col proprio opposto simbolico, con la concretezza del mondo esterno, la quale fornisca alla verità astratta una base atta a garantirle la propria esplicazione nella realtà.
In tal modo, dunque, l’astrattezza che connota, nel mondo della lettura, la verità, si confronta con la propria antitesi, con l’errore, ma è proprio quest’ultimo a fornirle quell’elemento sensibile che la invera rendendola manifesta, percepibile, in quel mondo empirico che, ora, è l’impronta in cui la verità astratta può dirsi in tutta la propria luminosità. La verità oscura della lettura, quindi, nel momento in cui si relaziona al mondo esterno, assume le connotazioni solari di quest’ultimo, che la pone nella condizione d’essere concretamente accessibile; all’inverso, il mondo esterno non appare più essere errore, in-autenticità, ma momento dialettico necessario grazie al quale l’astrattezza del vero non è più irrelata rispetto alla realtà. L’esteriorità riceve quel tanto di ombra atta a garantirla, il ruolo di sfondo tramite cui la verità manifesta il proprio essere concretamente astratto. Dunque, in conclusione, si è giunti a delineare come in Proust venga presentato un concetto paradossale, nonché ossimorico, di verità; una verità binaria, duale, oppositiva, in cui, tuttavia, gli opposti si rimandano l’uno rispetto all’altro, si completano in una sintesi di luci e ombre che dà origine a una magnifica oscurità solare.

NOTE
[1] Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni, trad. it. di Clara Lusignoli e Daniele de Agostini, Einaudi, Torino, 2001, p. 7.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 8-9.
[4] Ivi, p. 10.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 11.
[7] Proust sostiene che l’essenza dell’amore, il sentimento ultimo e fondante esso, sia per l’appunto la gelosia.
[8] G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, op. cit. p. 12.
[9] Ivi, p. 13.
[10] Ivi, p. 13-14.
[11] Ivi, p. 14.
[12] Tale questione meriterebbe un maggiore approfondimento che, in questa sede, mi è impossibile effettuare.

Luigi Sola - dioniso2@hotmail.it