Editoriale
corpus hominis/corpus beluae
Il vicolo cieco del pensare l'animale
[Anteprima]

 

L’idea alla base di questa uscita mi ha pesantemente schiacciato. La stessa stesura e organizzazione del numero mi hanno dato notevoli difficoltà. Affermare che il dispiegamento dei concetti che ne sono alla base è stato per me problematico suona quasi eufemistico.
L’idea iniziale era quella di dedicare un numero all’animale e alla ferinità, sfruttare il simbolismo biblico che il numero 6 offre e dedicarmi dunque a ciò che ha reso la bestia un qualcosa di demonico e demoniaco, ovvero il suo estremo contatto col mondo della necessità, dei bisogni, dell’istinto, del corpo e della materialità.
Fin qui tutto “regolare” ma poi si è inevitabilmente aperta una voragine concettuale data dalla differenza tra quelli che sono i significati culturali dell’animale e l’animale in sé, spoglio - ammesso che sia possibile (e sarà proprio questo il nervo della difficoltà schiacciante) - di qualsiasi umano preconcetto. Così, sono inevitabilmente giunto a dover sviluppare un discorso che tiene giustamente conto di un apparato autocritico in merito ai concetti di natura, animalità e selvatichezza. Autocritico in quanto evidenziante i limiti dell’umanità medesima.

Talvolta, l’illusione scientistica (proprio in quanto veicolante un’ideologia, una sorta di fede, una concezione che sfora di molto rispetto a un insieme specifico di analisi, metodi e sperimentazioni) consiste nel ritenere di avere il monopolio di un presunto sguardo neutrale: l’illusione di poter in qualche modo accedere, in questo caso, al che cos’è in sé dell’animale. Ma anche per l’approccio scientifico (soprattutto quando si pretende contraddittoriamente assolutizzante) la questione è culturale, storica, talvolta ideologica e di certo non esente da relatività culturale.

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Questa sesta caduta è per lo più impregnata - in alcuni scritti radicalmente, in altri anche solo marginalmente - del complesso rapporto tra l’animale-uomo e l’animale-bestia. Rapporto che nello specifico finisce per investire la questione del corpo in quanto quest’ultimo, messo in guerra con lo spirito, viene pensato tramite l’animalità.
Come evidenzia bene Giorgio Agamben ne L’aperto (Torino, Bollati Boringhieri, 2007) la metafisica occidentale, proprio in quanto metá-physis, ovvero superamento della natura, è stata alla base della costituzione di quella macchina antropologica che, tramite l’assolutizzazione del logos, ha per lo più avuto il compito di definire l’umano in opposizione alla corporalità dell’immediatezza animale. Ciò che appare costante, in questo meccanismo di difesa da ciò che delle nostre radici maggiormente ci inquieta, è l’ossessione per una presunta necessità di rimuovere l’alterità animale, corporale, al fine di una continua definizione di noi stessi come esseri spirituali.
La mente, la testa, il pensiero sono dunque sempre stati l’elemento di netta separazione (talvolta ideologica, talvolta pensata con lucidità e consapevolezza dei propri limiti) dell’uomo dalla bestia. Il corpo, invece, in quanto caratterizzato da immediatezza e necessità, ha sovente costituito fonte di angosciosa vicinanza tra animalitas e humanitas. La foresta, la giungla, o comunque gli ambienti selvatici più o meno incontaminati diventano così lo spazio simbolico di una geografia del puro corpo, del puro bisogno, del puro dramma della lotta per la sopravvivenza.
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Alessandro Chalambalakis - los@ctonia.com