Antonino Frenda

Ieromachie
Per una polemologia della guerra arcaica

Figure mitiche della guerra.
Arnold Bocklin, Das Krieg, 1896, Kunsthaus, Zurig.

la lancio [la freccia] - egli dice - verso il luogo dei
demoni, verso Adira, la terra dei morti.
Ogni storia funesta io interrompo.
Testimonianza di un guerriero Kiwai

In ogni buona arma c’è forza magica.
Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo

 

I. Hieròs e polemòs: miti, riti, ideologie

Così esordiva Roger Caillois nella premessa de La vertigine della guerra:

«La guerra presenta, in grado saliente, i tratti essenziali del sacro: sembra impossibile considerarla in modo obiettivo e con spirito analitico. E’ qualcosa di spaventoso e impressionante, che si maledice o si esalta, ma si studia poco»[1].

Lo studio sulla sacralità della guerra, «spaventosa» e «impressionante», maledetta o esaltata soprattutto quando “arcaica” e dunque portatrice demònica di motivi “irrazionali”, archetipico-sacrali e metastorico-numinosi, ha attraversato nervosamente una parte significativa del Novecento europeo nonché, piuttosto blandamente in verità, le prime linee dell’ufficialità accademica delle scienze umane e sociali. In merito a questo aspetto, nonostante gli approcci «realistici» all’argomento che Umberto Curi attribuisce a tutta una tradizione storico-filosofica, da Platone allo stesso Caillois,[2] non è superfluo ricordare che filosofi, etnologi e antropologi di varia formazione hanno spesso ceduto, anche in valide analisi recenti, alla classica tentazione eurocentrico-pauperistica del “pacifismo” innato dei “primitivi” e dei popoli extra-occidentali da un lato e alla pregiudiziale “superiorità” militare della cultura euroamericana dall’altro.[3] Eredità culturale, quest’ultima, quantomeno paradossale se si tiene conto dell’ideologia razionalistico-tecnocratica ad essa soggiacente, sfociata poi nella guerra “santa” contro il terrorismo islamista post 11 Settembre della quale sono ormai ben note le radici monoteistiche e messianico-escatologiche.[4] Pur ammettendo qui l’atteggiamento generalmente etnocentrico e criminalizzante dell’Occidente verso forme di conflitto e di sacralità guerriera altre, acute riflessioni antropologico-culturali e filosofiche sul valore ierogenetico della guerra nelle società extra-occidentali hanno preso le mosse proprio là dove la polemologia europea “classica” si allontanava dalla guerra “pre-scientifica” e dai suoi “arcaismi”, per entrare come notava Carl Schmitt, nella fase dell’«ottimismo tecnico-scientifico»[5]. Dopo il magistero di Caillois, possiamo rivolgerci in un primo momento alle penetranti riflessioni di Elias Canetti,[6] assumendole qui per uno sviluppo ieropolemologico del rapporto mito-rito. L’autore in Massa e Potere (1960) così infatti ridefinisce la possibilità di affrontare il tema della sacralità della guerra, nel quale:

«è opportuno uno sguardo alla contrapposizione primordiale tra vivi e morti»[7].

Questa «contrapposizione» è di natura irreversibilmente polemologica poiché i morti sono uno «strapotere nell’aldilà» e il morire, afferma ancora Canetti,

«è una lotta: lotta fra nemici di forze diseguali. Le grida che si lanciano, le ferite che ci si infligge nel lutto e nella disperazione sono forse intese come espressione di tale lotta. Il morto non deve credere d‘esser stato ceduto facilmente: per lui s’è combattuto»[8].

Figura con scheletro e spada.
Richard Muller, La vera pace, 1918 circa.

Più avanti Canetti affermerà che il morto o i morti per o contro cui si combatte, diventano «un’avanguardia dell’aldilà che si trascina dietro un numero maggiore di nemici»[9]. Questa suggestiva avanguardia dell’aldilà traduce molto efficacemente, sul piano fenomenologico-religioso, la struttura di numerosi immaginari bellico-rituali, intesi come modelli onto-cosmologici di primordiali combattimenti mitici dove agiscono solitamente il mondo di potenza uranico-celeste e\o ctonio (i morti, gli antenati, gli dei e altri esseri mitici) e quello della dimensione creaturale (gli uomini). Notava inoltre incisivamente Eliade come per l’esperienza religiosa arcaica la «lotta in sé è un rituale stimolante le forze genitali e della vita vegetativa».[10] Attraverso giochi e conflitti ritualizzati, secondo van deer Leeuw, si regolano «il rinnovamento dei morti, degli dei, dei vivi e del mondo intero»[11].

È noto come pietre, bastoni, asce di pietra, falcetti, reti e altri strumenti di caccia-raccolta e di attività piscatorie abbiano svolto ambivalentemente funzioni ergologiche (ergon: lavoro), di corredi funebri e armi[12] presso variegati contesti magico-religiosi: impiegate nelle cosmogonie primordiali da esseri mitici o nelle iniziazioni[13], le armi diventano una cratofania (manifestazione di potenza).

Nelle lotte cosmo-teogoniche in area mesopotamica e nel Vicino Oriente antico si ricordano il ciclo di Bel-Marduk contro Mu-Mu-Tiamat, catturato tramite una rete da pesca ed El-Baal, armato di folgore e mazza contro Mot, il dio della morte: entrambi i cicli venivano mimati in armi.[14] Nel pensiero mitico-religioso greco, la sacralità del rapporto morti-guerra risulta ambivalente. J. P. Vernant ha ampiamente dimostrato come Esiodo pose i destini ultraterreni della razza di bronzo, i guerrieri, tra le ombre di Hades; essi infatti nascevano, armati di tutto punto (àndres énoploi), dai frassini (melian), alberi equiparati alle lance e ai giavellotti accentuandone così il simbolismo guerriero-funebre.[15] Scurati estende la concezione esiodea all’omologia tra regno infero e campo di battaglia dove i combattenti, perdendo la loro individualità nelle mischie furibonde, vengono assimilati alla condizione larvale delle anime negli inferi.[16] Eraclito di Efeso contrariamente all’anti-aristocraticismo guerriero di Esiodo, fece di polemos un primordiale fondamento cosmologico e ordinatore; disprezzando le istanze soteriologico-consolatorie dei riti misterici come “rimedi” (àkea), Eraclito trovava invece virtù (aristeìa) negli uomini morti in battaglia, le cui anime, onorate dagli dei e dagli uomini, erano ritenute più pure di quelle morte per malattia.[17] Presso i popoli scandinavi, la permanenza ultraterrena dei guerrieri nel Vahlhall rimane l’esempio forse più luminoso pervenutoci di pantheon guerriero-funebre: Odhinn e i suoi einherjar nell’aldilà

«si dedicano costantemente, tra di loro, a duelli senza conseguenze, poiché le ferite non uccidono più ed essi li interrompono solo per abbandonarsi a succulenti banchetti»[18].

Dumézil ha rilevato come nel sistema di credenze germanico, per «andare da Odhinn», oltre al morire in battaglia (val), bastava farsi segnare con una punta di lancia o farsi impiccare.[19] Analoghe pratiche di iniziazione mistagogico-guerriera sono attestate nella fenomenologia sciamanistica, nei rituali mithraici[20], e appartengono ad una diffusa archetipologia del nume-guerriero-mistagogo sulla quale non possiamo almeno per ora sufficientemente soffermarci. Invece, è opportuno sottolineare, sull’esempio dell’immaginario guerriero scandinavo, che festa e guerra si pongono frequentemente come «mitologie parallele»[21], come si tenterà di evincere dalle testimonianze folkoriche ed etnografiche seguenti.

 

II. Antenati in guerra e guerra agli antenati: etnologia e folklore

Ci interessa evidenziare come gli antenati e i morti, alterità mitiche par excellence, vincolati ai vivi dai cicli e dai ritorni festivi, vengono affrontati, respinti, propiziati o distrutti more bellico. Anzi, si può ragionevolmente affermare che morti e antenati siano tra le potenze numinose che più di tutte connotano i conflitti e le guerre come “arcaiche”. È infatti di questo avviso Elemire Zolla, quando definisce brillantemente i defunti come «un esercito di vendicatori sinistri»[22], espressione assai pregnante per le drammatizzazioni cerimoniali di interesse etno-demologico. Nel cerimoniale di Capodanno, presso i Kiwai della Nuova Guinea, i Malagan (gli antenati), intagliati in figure di legno e nascosti ai non-iniziati e alle donne, dopo l’esposizione propiziatoria nella loro “casa”, venivano completamente distrutti dai guerrieri Kiwai con asce e mazze; sempre nella stessa area, il mito di fondazione della festa tabu presso i Koita e i Motu, studiati da C. G. Selingman nei primi anni del Novecento, narrava che gli spiriti tabu, identificati con i defunti, fecero prigionieri gli uomini nel tempo mitico e prescrissero loro di realizzare la festa omonima.[23] Nei contesti folklorico-religiosi di area mediterranea, in Sicilia in particolare, si assiste all’apparizione cerimoniale dei Giudei[24], arcaiche maschere demònico-ctonie dai tratti teriomorfo-militareschi, riplasmate nel complesso devozionale della Settimana Santa a San Fratello (Me). Sempre in Sicilia, il Pitrè riporta, alla fine dell’Ottocento, la credenza in Birritta Russa (Berretta Rossa): «lo spirito di un soldato spagnuolo che morì impenitente sulle forche ed è condannato fino al giorno del Giudizio a starsene nel quartiere con sempre dinnanzi agl’occhi il sangue innocente che avea versato dalle vene d’un povero giovane»[25];

Nelle apparizioni, questo spirito palleggia teschi recisi sanguinanti e il sangue, gocciolandogli addosso, accresce la fiamma che gli ardeva tra gli occhi. Questa tipologia di figura folklorica si ritrova anche presso contesti culturali estremamente diversificati: durante la guerriglia andina negli anni ‘80 del Novecento, i teruscos (terroristi) di Sendero Luminoso venivano identificati dai contadini con spiriti ed entità funerario-notturne del folclore quechua; nel cuore dell’Europa, Slobodan Milosevic, riesumando la salma del Principe Lazzaro e portandola in processione per tutto il Kosovo a dimostrare la recuperata identità etnico-militare serba, non si dimostrò poi così lontano da questa sacralità guerriero-funebre “arcaica”: l’eterno ritorno dei morti belligeranti dunque, anche nell’avanzatissima Europa contemporanea…

Ma è in alcuni casi di conflitti etnico-religiosi africani che sono da ricercare tuttora gli esempi più interessanti in questa direzione. Qui ci preme sottolineare esplicitamente come il complesso mitico-rituale degli antenati “in guerra” debba leggersi nel rifiuto della produzione e nell’inversione sacralizzata di attività che gli indigeni consideravano quotidiane o di un livello ontologico “inferiore”. La credenza nel ritorno armato dei morti si presenta, oltre che in tutta la sua portata di ambivalenza bellico-sacrale e di inversioni bio-cosmologiche (umido vs asciutto, maschile vs femminile, guerriero vs agricoltore, ecc.) come tra i casi più rappresentativi e drammatici - anche se con esiti diversi - di osmosi tra Ur-zeit e Ur-krieg. Gli Xosa del Sud Africa, come ci informa A. W. Burton in Sparks from the Border Anvil (1950) incorreranno al proprio annientamento credendo, con orge e immani sacrifici di bestiame, di unirsi alla massa dei guerrieri morti al fine di uno scontro escatologico contro i bianchi; nota ancora Burton che non a caso i precedenti resoconti delle missioni tedesche in Sud-Africa parlavano di propheten tra gli Xosa, il che fa pensare ad un preesistente sfondo religioso di tipo manistico, riplasmato in seguito da forti tendenze etnico-nativistiche e sfociato poi in “millenarismo” armato e anti-coloniale.
Un caso ancora più significativo di ritorno “in armi” degli antenati è stato ben documentato da Maurice Bloch in Da preda a cacciatore: la politica dell’esperienza religiosa[26] presso i Merina del Madagascar. I Merina nella seconda metà dell’Ottocento abbatterono la monarchia “collaborazionista” del re francofilo Radama II in seguito alla soppressione da questi operata del tradizionale rito di circoncisione. Non è un dato di poco conto nell’ambito di questo studio: l’abolizione della circoncisione Merina non ha infatti significato solo un semplice atto di de-culturalizzazione operato dall’aristocrazia indigena filo-francese; il sistema tradizionale dei lignaggi e delle parentele soggiacente al simbolismo circoncisorio Merina prevedeva una socio-cosmologia mitica dove i Merina circoncisi, uccidendo l’elemento “umido”, “femminile”, “mortale” (identificato con il lavoro e la riproduzione sessuale) partecipavano allo status “asciutto”, “maschile-guerriero” ed “eterno” degli antenati (come non ricordare qui l’analogia con certe antropologie gnostiche del Mediterraneo orientale?). Abolendo il rituale, secondo i Merina, tutto era destinato a precipitare nel disordine caotico del “profano” e della morte, unitamente alla loro inesorabile disintegrazione etnico-politica. Posseduti dai re defunti e dagli antenati, abbandonati i lavori agricoli e «rifiutando la produzione in tutte le sue forme scambiandola con l’immutabilità ultraterrena»[27] i Merina resi “asciutti” dal furor escatologico rovesciarono Radama II, ripristinando la circoncisione come la principale cerimonia del nuovo Stato. In questi casi, la convulsione metastorica tra guerra e festa non ha solo sbarazzato istituzioni ormai logore, né si configura dialetticamente con la sfera del “profano” che, anzi, viene decisamente abolito e negato: il suo furore palingenetico viene a coincidere con il rovesciarsi sulla terra delle avanguardie dell’aldilà: fuori da ogni antropologia sociale dunque, tra gli Xosa, i morti hanno ucciso vivi, presso i Merina hanno trionfato, ispirando vivi che erano come i morti.

Lotta di centauri.
Arnold Bocklin, Centaurenkampf, 1872-1873,
Kunstmuseum, Basilea.

III. Tecniche e magie di guerre arcaiche rifunzionalizzate:
ricognizioni e avvistamenti


Secondo un dossier del National Geographic del Settembre 2005, durante il conflitto congolese del 2002, gruppi armati di etnia Mbuti fecero stragi di Pigmei della foresta dell’Ituri non senza ricorrere a pratiche di magia ju-ju, ancora molto radicata tra i Congolesi che vi ricorrono ancora oggi con una concitata frequenza. Secondo le testimonianze di alcuni osservatori del contingente di pace dell’Onu, si sono verificate pratiche di cannibalismo a scopi “terroristici” perpetrati dai Mbuti a danno dei Pigmei. Ci si trova in questo caso, moralismi umanitari a parte, in una rifunzionalizzazione di tecniche di magia guerriera tradizionale. L’efficacia della magia ju-ju infatti varia e dipende dalla “purezza” del soldato che ne fa uso: i soldati Mbuti si trasformarono in questo caso contro i Pigmei in guerrieri “liquidi” per evitare frecce e pallottole. Inoltre, i Pigmei, ritenuti particolarmente dotati di straordinarie capacità (vista acutissima, fiuto, ecc.) dovevano essere uccisi in grandi quantità poiché più se ne uccideva, più si acquisiva dawa, cioè la facoltà/potenza di mangiare/incorporare il nemico ed acquisirne le doti. A dimostrare la natura rituale di questa “pornografia di guerra”, come la definirono gli osservatori occidentali, soldati Mbuti furono visti con corpi di Pigmei essiccati ed esibiti come trofei-amuleti. Nel Congo, in quella che è stata definita come la “peggiore tragedia umanitaria dopo la seconda guerra mondiale” si ritrovano quindi alcuni dei più diffusi motivi magistico-sacrali della guerra e del guerriero:

«Ogni combattente consacrato - affermava Caillois - si abbandona spontaneamente alla violenza e alla crudeltà, ritenendosi libero di bere e giocare, rubare o stuprare, colpire, umiliare ed uccidere»[28].

La consacrazione magico-guerriera si configura ancora oggi come uno status fortemente sacralizzato. Tra gli Jvaro, noti al grande pubblico come “cacciatori di teste”, ridurre le teste dei nemici tramite lo tsantsa impedisce all’anima muisak di ritornare per vendicarsi: inoltre la testa è vista come il ricettacolo sacrale di un complesso sistema cosmologico che determina l’individualità del guerriero Jvaro in relazione alle anime degli antenati e al gruppo sociale.[29] Così tra gli inni del folklore degli incas quechua, testa, denti, ossa e pelle del “traditore” ucciso diventano ornamenti e strumenti rituali da indossare, esibire e suonare nel ballo tradizionale.[30] Recenti monografie etnografiche attestano che indigeni di diverse aree etnologiche hanno praticato la “caccia alle teste” sino agli anni ’50 del Novecento. Taglio della testa, essiccamento dei corpi dei nemici, antropofagia guerriera e conseguente accrescimento di potenza non sono quindi “scomparsi” a colpi di democraticismo umanitario.

Difficile non chiedersi, a questo punto, dove e come l’Occidente abbia tradotto queste “pornografie” guerriero-sacrali “primitive” o “arcaiche”. Indubbiamente, la de-sacralizzazione delle attività belliche operata dalle tecno-scienze non impedisce che emergano nuovi “primitivi” belligeranti. Questi, brulicando intorno alla periferia della guerra e possedendone quell’odiata e incomprensibile sacralità arcaica, preparano chissà quali nuove forme di ierofanie guerriere contro le nostre innocue e umanitarie, ma non per questo meno crudeli, condanne, prigionie, crocifissioni. Carl Schmitt aveva intuito, mitologicamente, come sotto la frenesia tecnocratica dell’efficiency militare occidentale, «i morti cavalcano veloci, e se vengono motorizzati vanno anche più svelti»[31].

NOTE
[1] R. Caillois, La vertigine della guerra, Roma, Città Aperta, 2002, p. 57.
[2] Cfr. U. Curi, Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Bari, Dedalo 1999.
[3] Dobbiamo in questo senso a Pierre Clastres (1934-1977) una delle più feconde critiche all’etnocentrismo polemologico dell’Occidente; in Archeologia della violenza, Roma, Meltemi, 2007, p. 60, egli affermò che «l’osservazione etnografica dimostra la dimensione propriamente politica dell’attività guerriera, che non è riconducibile né agli specifici caratteri zoologici dell’umanità né alla concorrenza vitale tra le comunità, né infine ad un moto costante dello scambio verso la soppressione della violenza. La guerra fa corpo con la società primitiva in quanto tale - al punto che appare in essa come fenomeno universale - perché è una sua modalità di funzionamento: è la natura stessa di questa società che determina l’esistenza ed il senso della guerra».
[4] Su tutti, cfr. La paura e l’arroganza, a cura di F. Cardini, Roma-Bari, Laterza, 2002; E. Gentile, Le religioni della politica fra democrazia e totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2007.
[5] C. Schmitt, Teoria del partigiano, Milano, Adelphi, 2005, p. 108-109.
[6] Su Elias Canetti mitologo e antropologo rimandiamo all’illuminante saggio di Furio Jesi: Composizione e antropologia in Elias Canetti, p. 309-332 in Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Torino, Einaudi, 2002.
[7] E. Canetti, Massa e Potere, Milano, Adelphi, 1981, p. 79.
[8] E. Canetti, op. cit., p. 80.
[9] E. Canetti, op. cit., p. 167.
[10] M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 294.
[11] G. van deer Leeuw, Fenomenologia della religione, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 296.
[12] M. Harris, Cannibali e re. Le origini delle culture, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 43.
[13] In merito ad un’interpretazione esoterico-iniziatica delle armi, cfr. anche R. Guenon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1997, p. 160-164.
[14] La letteratura storico-religiosa al riguardo è sterminata; si segnalano qui le analisi storico-comparative di E. O. James: Mith and Ritual in Ancient Near East (trad. it., Antichi dei mediterranei), Est, 1996, p. 225-245; P. Xella, Gli antenati di Dio, divinità e miti della tradizione di Canaan, Verona, 1982.
[15] J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Torino, Einaudi, 1967, p. 30-31.
[16] A. Scurati, Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale, Roma, Donzelli, p. 73.
[17] Cfr. A. M. Di Nola, La Nera Signora. Antropologia della morte e del lutto, Roma, Newton & Compton, 1995, p. 133.
[18] G. Dumézil, Gli dèi dei Germani, Milano, Adelphi, 2002, p. 59.
[19] G. Dumézil, op. cit., p. 59-60.
[20] G. van deer Leeuw, op. cit., p. 274.
[21] R. Caillois, op. cit., p. 133.
[22] E. Zolla, Discesa all’Ade e resurrezione, Milano, Adelphi, 2002, p. 35.
[23] V. Lanternari, La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, Bari, Dedalo, 2004, p. 129-131.
[24] A. Buttitta, La Pasqua in Sicilia, Promolibri, 1978, p. 56-57.
[25] G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV, Il Vespro, p. 37-38.
[26] M. Bloch, Da preda a cacciatore. La politica dell’esperienza religiosa, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005.
[27] M. Bloch, op. cit., p.138.
[28] R. Caillois, op. cit., p.121.
[29] M. Augè, Il genio del paganesimo, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 178-180.
[30] Aa.Vv., Poesie e Canti degli Incas Quechua, a cura di Gianni Toti, Roma, Fahrenheit, 1995, p. 36.
[31] C. Schmitt, op.cit., p. 107-108.

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