Alessandro Chalambalakis e Michele Terlizzi

«Non più di quanto esista la certezza del male»
Pensare la donna, l’eros e il conflitto nell’opera di Edvard Munch


Ti desidero quando il tuo sguardo è stanco e affaticato, quando hai sulle labbra quella smorfia di dolore a causa della tua sofferenza, quando il tuo volto è pallido, quando mi sfiora il pensiero che tu pensi a me e io ti desidero non più di quanto esista la certezza del male. L’umanità è una malattia della terra. Il duro scorpione della terra ha emesso gocce e fango, che sono diventati uomini e animali.

Edvard Munch, “Il grido” – Scritti sull’arte e sull’amore


Un’analisi completa del femminile nell’opera di Edvard Munch (1863–1944) dovrebbe, opera per opera, scandagliare le semantiche, gli stili, i motivi e le varie tematiche ad esso connessi. Ovunque vi sia traccia di una raffigurazione femminile si dovrebbe quindi procedere ad una minuziosa analisi estetica e/o storico-artistica che metta in luce il rapporto tra l’opera, le tematiche in essa affioranti e, ovviamente, il vissuto e le intenzioni espressive dell’autore. Un tale proposito, data la sua vastità, esula chiaramente dalle intenzioni di questo lavoro. L’obiettivo che ci siamo qui prefissi consiste invece in un’analisi del femminile munchiano nel suo senso forte, drammatico. Tale drammaticità vive della profonda relazione che l’artista intesse tra la donna e tematiche quali la malattia e l’appassire della vita, l’angoscia e la malinconia ma anche la carnalità e l’erotismo più violenti, a loro volta coinvolti nel dramma delle separazioni, dei desideri e del conflitto tra i sessi. Alla luce della scelta di questo criterio, criterio che per natura interessa questa sede, considereremo qui quelle opere che, lungi dall’essere marginali nell’intero percorso artistico di Munch, hanno meglio espresso le tematiche citate e delle quali una buona parte appartiene al ciclo pittorico Il fregio della vita.
Nell’itinerario espressivo di Edvard Munch, non mancano di certo visioni sobrie e armoniose della bellezza femminile. Opere come Ritratto della sorella Inger (1884), Ritratto di Inger Munch (1892), Nudo parigino (1896), Nudo di spalle (1896), Madre e figlia (1897) e Le ragazze sul ponte (non datato) ne sono chiara testimonianza. Tuttavia è lo stesso Munch che, nei suoi scritti[1], sottolinea la centralità tragica dei suoi quadri, della sua visione del mondo e del suo modo di pensare l’arte. Vediamo in che modo.

1 - LE FASI DELLA VITA E LO SCORRERE DEL TEMPO

La donna in tre fasi (Sfinge), 1894, olio su tela, 164 x 250 cm,
Bergen, Collezione Rasmus Meyer.

Nella tela La donna in tre fasi - La sfinge, datata 1894, Edvard Munch dipinge la donna in triplice versione: a sinistra è vestita di bianco, casta e pura, simbolo dell’amore ideale e della femminilità incontaminata; al centro è nuda, con le mani dietro la testa e le gambe divaricate che guarda l’osservatore in modo provocante e provocatorio e con dipinto sul volto un ghigno beffardo, demonico; a destra, infine, è vestita a lutto, infelice e col volto spento. All’estrema destra compare un uomo che, distrutto dalla sofferenza causatagli dalla fine dell’amore e della passione, reca in mano il fiore del dolore dal quale sembra colare del sangue. Le due figure sulla destra sono accomunate dalla medesima sofferenza (nonché dalla medesima scelta cromatica) e, facendo da contraltare alle figure di sinistra, tramite una carica descrittiva parossistica e visionaria, simboleggiano quel drammatico esito dell’amore tanto caro alla poetica dell’artista norvegese. Sarebbe un errore però interpretare le fasi della donna in modo esclusivamente temporale. Tali fasi esprimono in Munch una triplice natura del femminile, un triplice modo di essere: nell’innocenza, nella carnalità e nella luttuosità dell’amante donna infelice.

In opere come questa ma anche in quelle che citeremo più avanti, Munch è già fortemente orientato a quella stesura del colore che tanto influenzerà l’espressionismo, l’informale e l’arte contemporanea in genere. Qui Munch ha nettamente annientato ogni residuo di impressionismo e naturalismo che invece caratterizzavano i suoi primi dipinti. Egli, in queste pitture, sta battendo un sentiero inesplorato dal punto di vista formale e della sperimentazione stilistica. Le pennellate sono improntate alla materialità del colore e alla gestualità e rapidità del segno. La finezza descrittiva viene da Munch abbandonata per poter dare liberamente spazio a quell’impeto visionario, a quell’intimismo a tratti allucinato e a quella violenta irrequietezza psichica che ritroveremo nell’espressionismo nordico e in buona parte degli sperimentalismi contemporanei che concepiranno l’arte come aggressione del reale da parte di una soggettività dirompente.

La danza della vita, 1899/1900, olio su tela, 125,5 x 190,5 cm, Oslo, Nasjonalgalleriet.

La danza della vita (1899-1900) tratta lo stesso tema con l’evidente caratteristica di un’atmosfera spettrale data soprattutto dalla figura dell’uomo danzante (in secondo piano sulla destra) che ricorda i volti grotteschi della pittura di Ensor. Sulla sinistra compare nuovamente la fanciulla dalla candida veste che accenna un leggero movimento in prossimità dei fiori. La donna al centro, vestita di rosso (lo stesso rosso, mai casuale, che Munch utilizza per dipingere i vestiti e le aureole delle sue figure femminili votate all’eros), sta danzando con un giovane uomo; dietro di loro, altre coppie sono intente in un ballo vorticoso. Sullo sfondo, il riflesso della luna sembra trasformarsi in un simbolo fallico. Sulla destra, emarginata dal ballo (così come la fanciulla a sinistra), appare la donna vestita di nero: il suo volto afflitto, le mani intrecciate e la rigidità del busto ne fanno un simbolo di esclusione e staticità, un presagio di morte, un epilogo al quale la stessa danza è inevitabilmente votata.

La donna in tre fasi, La danza della vita, Danza sulla spiaggia (1904) e le grafiche come La donna (1899) e La donna II (1895) rivelano compiutamente e una concezione del destino umano e la percezione di una triplice natura del femminile che il pittore norvegese dipinge intrecciando una drammaticità biologico/psicologica del tutto inedita prima di lui. L’inquieta visionarietà di Munch si esprime sicuramente nelle atmosfere pesanti, dense, a tratti fluide e melmose e nella percezione della donna come misteriosa e multilaterale compresenza di nature tra loro opposte e conflittuali ma, anche e soprattutto, nello slittamento simbolista di un sentire tragico (in cui i drammi di Henrik Ibsen hanno sicuramente giocato un ruolo importante) che concepisce le opposizioni dell’esistenza come irrimediabili e inconciliabili.

2 - LA MALATTIA, LA MORTE E LA MALINCONIA

Il tema del dolore è una costante nelle opere di Munch. La bambina malata (1885-1886) e Primavera (1889) traggono spunto dalle tristi vicende infantili vissute dal pittore, e cioè la morte, per tubercolosi, della madre e della sorella Sophie (avvenute rispettivamente quando egli aveva 5 e 14 anni). Le due tele hanno il medesimo soggetto: una madre al capezzale della figlia morente. La bambina malata, tuttavia, ha una maggiore carica emotiva e si presenta nettamente più cupo e graffiante, sia per quanto riguarda la posizione china del corpo della madre che per la nervosità del tratto e la scelta cromatica che il pittore adotta.

Munch si rapporta alla malattia anche in dipinti come Eredità (1897-1899) e Donne in ospedale (1897-1899). In Eredità sono ritratti una madre in lacrime ed il suo neonato il quale porta sul corpo i segni della sifilide che lo condurrà alla morte. La raffigurazione è straziante: madre e figlio formano un blocco monolitico traboccante dolore e disperazione, probabilmente un ulteriore accenno alle morti alle cui Munch assisté da bambino. Donne in ospedale (Munch trovò probabilmente ispirazione nell’ospedale Saltpètriere di Parigi dove nel 1890 circa lavorava il suo amico psichiatra Paul Contard) esprime invece tutto l’isolamento delle donne affette da disagio mentale. Tra le figure dipinte non vi è comunicazione, la lontananza reciproca e tra esse e l’ambiente è evidentissima: la donna a sinistra è totalmente privata dei lineamenti, quella centrale ha il volto simile ad una maschera e quella a destra cammina nuda, distaccata e assente. La medesima assenza è riscontrabile in tele come Notte d’estate - Inger sulla spiaggia (1899), Malinconia, Laura (1899) e Malinconia - Ragazza che piange sulla spiaggia (1906-1907), che affrontano specificamente il tema dell’umor nero e dell’avvilimento. Le donne sono ritratte con atteggiamento pensieroso, nostalgico, malinconico, con lo sguardo assente e perso nel vuoto.

Ma è ne La madre morta e la bambina, realizzato tra il 1897 e il 1899, che l’urlo di dolore dell’arte munchiana rimbomba in maniera assordante. Rispetto alle opere precedentemente citate le parti si invertono ed è la piccola ad essere partecipe della morte della genitrice. E’ proprio la bimba la vera protagonista del dipinto; essa è collocata al centro della tela, il suo vestito rosso sangue risalta sul chiarore del letto e cattura prepotentemente l’attenzione. Il gesto che la piccola compie è lo stesso che è possibile ammirare ne Il grido (1893): urlare e contemporaneamente coprirsi le orecchie con le mani per non udire quel grido lacerante. Sullo sfondo compaiono altri familiari; cinque figure che piangono e soffrono. Eppure, nonostante la presenza di tutti questi personaggi, la stanza appare desolatamente vuota. Questa sensazione non fa che amplificare la solitudine dell’urlo della piccola che sembra destinato a non essere ascoltato mai. In questa tela, Munch rivive ancora una volta la morte della madre e fa compiere alla sorella Sophie quel gesto penetrante e carico d’angoscia.

3 - AMORE, SESSUALITÀ E CONFLITTO

In Pubertà, datato 1894, Munch ritrae un’adolescente nuda, col volto impietrito, il corpo chiuso in se stesso e le mani che vanno a coprire i genitali. L’artista ci rende partecipi di un momento estremamente intimo e delicato vissuto dalla ragazza, ossia la scoperta della propria sessualità. Questa scoperta è però spaventosa, angosciata, non c’è un minimo accenno al desiderio o ad una sensuale curiosità. La giovane, al contrario, pare sprofondare in quella squallida stanzetta, ingabbiata dalla agghiacciante rivelazione. Sullo sfondo emerge, enorme ed inquietante, un’ombra che sembra avere vita propria. Quella stessa ombra che ricorre così spesso nella prassi pittorica munchiana e che è sovente inserita dall’artista in opere il cui soggetto principale è la vita sessuale o amorosa. Nel caso di Pubertà, l’ombra è minaccia, presagio di un drammatico e ineluttabile compimento dello sviluppo sessuale. La perdita dell’innocenza che condurrà alla medesima fine a cui conduce la danza della vita. Fiorire significherà dover lentamente appassire nella drammaticità di quelle relazioni amorose che Munch dipinge come conflittuali, schiaccianti e insostenibili.

Opere come Le mani (1893), Madonna (1894) e Il giorno dopo (1894-1895) possono invece essere inscritte, seppur in modalità tra loro differenti, all’interno di motivi quali erotismo, abbandono e dissolutezza. Ne Le mani, la nudità della donna è scevra dei più eccessivi turbamenti tipici dell’artista ma è comunque caratterizzata da una forte carica erotica. La posa rilassata e disinvolta, il rosso acceso delle labbra e del capezzolo e la rotondità dell’anca ostentata con malizia conferiscono alla fanciulla una decisiva sensualità. Le mani, bramose, alle quali si riferisce il titolo, convergono dai margini della tela verso la donna che, nonostante la leggerezza gestuale dell’abbandono erotico, campeggia monumentale al centro della composizione assieme alla sua mai assente ombra.

Nella Madonna del 1894 Munch si spinge oltre. Qui la donna è ritratta in un momento di estasi sessuale, col busto inarcato, gli occhi chiusi, i capelli fluenti, le braccia libere di seguire il brivido di piacere che percorre il suo corpo e la rossa aureola a indicarne la santità erotica. Aureola che la studiosa Arne Eggum ha persino interpretato come la falce lunare della dea Astarte[2]. Le curve linee concentriche che circondano la donna non fanno che evidenziare il vento di passione che scuote il dipinto. È una tela nella quale emerge il lato dissacrante e provocatorio dell’artista. In questa Madonna (che in alcune versioni compare accompagnata da un feto – in basso a sinistra - e circondata da una cornice di spermatozoi) che De Micheli definisce come una verità sacrilega che Munch oppone al puritanesimo nordico dell’epoca[3], vi è una commistione di eros e thanatos, di elementi sacri e profani, di aspetti erotici e sacrali del quale solo le parole del pittore medesimo possono rendere conto: «La pausa nella quale il mondo arresta il proprio corso / Il tuo aspetto racchiude tutta la bellezza della terra / Le tue labbra crèmisi come il frutto che matura / si allontanano l’una dall’altra come se soffrissero / Il sorriso di un cadavere / Adesso la vita porge la mano alla morte / Viene chiusa la catena che unisce mille generazioni / di morti a mille generazioni future»[4].

Il giorno dopo riprende tantissimo della figura femminile proposta da Munch in Madonna (mi riferisco soprattutto alla somiglianza tra le due donne) anche se in chiave decisamente meno simbolica e visionaria. Il tema dell’abbandono e della dissolutezza si fa qui evidentissimo. La donna, per motivi non lasciati sottointesi dall’artista, è malamente distesa e addormentata sul letto con ancora i vestiti addosso.

Le opere maggiormente significative nelle quali il pittore norvegese affronta i motivi della sessualità, del conflitto tra uomo e donna, dell’amore che finisce e della passione che divora sono Il vampiro (1897), Ceneri (1894), Gli occhi negli occhi (1894), Separazione (1896), Il bacio (1897), Uomo e donna (1898), Gelosia II (1907), Amore e psiche (1907) e La morte di Marat (1907).

Ne Il Vampiro crudeltà e tenerezza s’intrecciano. La donna sembra consolare e mordere al contempo un uomo privo di lineamenti e piegato su se stesso. L’ambivalenza di quel bacio e di quell’abbraccio è centrale. Della composizione spiccano in primo luogo i capelli della donna, l’ombra che da sopra avvolge e appesantisce gli amanti e l’assenza di tratti di riconoscimento nella figura maschile. L’uomo abbraccia tuttavia la donna e più che schiacciato da lei sembra dolorante in se stesso. La drammaticità dell’opera sta, a mio avviso, nel fatto che Munch dipinga quel gesto tenero e consolante come predatorio e che veda nell’ambiguità del gesto femminile un rapace nutrirsi del dolore dell’uomo.

Ceneri (Dopo la caduta), raffigura una coppia in preda alla disperazione, una sorta di Adamo ed Eva in chiave moderna. Le due figure, tuttavia, non sono unite in un unico blocco: ognuna di esse vive in solitudine il proprio stato d’animo. In basso a sinistra, rannicchiato e chiuso nel più cupo dolore, è raffigurato l’uomo. A destra c’è la donna, che indossa un abito bianco al di sotto del quale si intravede un triangolo di tessuto rosso sangue dal chiaro contenuto simbolico. Essa porta le mani alla testa, in un inconfondibile gesto di disperazione. I capelli le scivolano lungo i fianchi e vanno a raggiungere la figura maschile, quasi avvinghiandolo. In questo dipinto, come in altri, è l’uomo ad essere vittima di quel turbamento del mistero sessuale che la donna provoca. Turbamento che in opere come Uomo e donna emerge in tutta la sua profondità mitica, archetipica. Il senso di minaccia che Munch conferisce alle sue donne più dense di significati schiaccia l’uomo, lo logora, lo sfinisce, lo consuma e lo rende inerme innanzi a quella sovranità del femminile che le avvolgenti ombre nere e le rosse aureole non fanno che ribadire.

L’ombra, in Munch, si presenta come motivo ricorrente, come formula[5]; è parte integrante del suo linguaggio ossessivo, del suo sguardo tragico alla vita di coppia e a quella misteriosa femminilità che devasta. Anche il motivo simbolico dei capelli vivi che si dirigono verso l’uomo è una costante della sua pittura e sempre da inscriversi nella poetica di quella fatale potenza della donna che tanto dolorosamente abbatte l’uomo. Basti pensare al già citato Ceneri, a Occhi negli occhi e Separazione. In Separazione, il dolore patito dall’uomo si manifesta con forte chiarezza. La mano è poggiata sul petto all’altezza del cuore sanguinante. La causa di tanto dolore si sta allontanando, leggera e indifferente e, a dispetto della candida veste, continua ad imbrigliare l’uomo con la sua chioma.

Il mistero che schiaccia così tanto l’uomo nelle opere munchiane è precisamente quella polivalenza del femminile che abbiamo visto in opere come La donna in tre fasi. Munch dipinge madri, figlie, sorelle, amanti e assassine. Com’è il caso per esempio del dipinto La morte di Marat dove l’espediente storico e narrativo dell’assassinio del rivoluzionario Marat per mano dell’aristocratica Charlotte Corday, fornisce a Munch l’occasione per esprimere quel fatto biografico che, nel 1902, lo aveva visto vittima di un colpo di pistola alla mano sinistra da parte dell’amante Tulla Larsen. L’amore in Munch si approssima alla morte, diventa guerra, conflitto. Egli sottolinea continuamente la drammatica natura di quell’incontro-scontro tra forze passionali che attraggono, che seducono, che respingono e che finiscono per schiacciare gli stessi amanti.

Munch ha trasformato la pittura in uno sguardo che si ribalta. Il suo sguardo non è rivolto all’esterno bensì è orientato ad una visione interiore che trasforma la realtà medesima. La realtà, come per la pittura romantica, diventa teatro di un’interiorità da sondare. Munch però aggiunge una aggressione soggettiva, una furiosa ricerca simbolica e visionaria la cui natura rimane estranea al romanticismo. L’esplosione del soggetto, dell’interiorità verso l’esterno, si manifesta soprattutto nella gestualità che le pennellate dell’artista norvegese portano con sé; quello che emerge della soggettività munchiana non è solo la visione in senso allegorico ma soprattutto la processualità interiore della visione stessa, della creazione di simboli e quindi del gesto artistico medesimo. L’atto creativo, in Munch, predomina sulla soluzione formale, rendendo conto precisamente della fugacità del simbolo. Il processo pittorico domina sul risultato pittorico proprio tramite la velocità del segno e il nervosismo del gesto; dando vita così a quella sensazione di incompiutezza, “non finito” e casualità di cui si parla guardando le tele di Munch[6]. Il tratto pittorico esprime senza mezzi termini un impeto esecutivo, una rapidità e un’ossessività gestuale. È la gestualità di chi insegue un’allucinazione, una visione. Per natura questa visione sfugge, è mangiata e deformata nei suoi contorni, non è mai chiara e ben definita. In questo senso si può parlare della ricerca pittorica munchiana non solo come di un inedito approccio alla percezione della realtà ma come di un inedito approccio alla visione e al simbolo stessi[7].

In merito al modus pittorico della rappresentazione munchiana dell’interiorità emerge tutta la problematicità della figura-soggetto lacerata, trasfigurata e la cui definizione non è mai precisa. In quest’ottica dobbiamo inscrivere quindi un’ulteriore accezione mediante la quale il termine conflitto può aiutarci a comprendere la natura dell’opera di Edvard Munch: e cioè conflitto inteso come violenta dialettica tra forma e informe. Il confine tra spazio e figura è continuamente in movimento, è continuamente trasgredito ma è comunque sempre presente. La tragicità delle sue figure è data precisamente dal conflitto tra forma e informe molto più di quanto non sarebbe data da una totale dissoluzione astrattista del figurativo. Le atmosfere dense che entrano nei corpi e i corpi che sembrano dissolversi nello sfondo rarefatto creano un contrasto mai risolto e sempre vivo. Nel caso de Il bacio vediamo come questa dialettica tra forma e informe generi una con-fusione reciproca degli amanti: i lineamenti dei due innamorati, sono dissolti, nel tipico stile munchiano, in una carnalità morbida e pastosa, in un vicendevole mescolarsi dei volti. In Amore e psiche invece vediamo che la dissoluzione avviene separatamente, individualmente, ognuno dei due amanti, a esprimere l’angosciosa distanza tra i due, sembra sciogliersi in quelle larghe pennellate verticali a prescindere dall’altro. La Figura e il soggetto, in Munch, sono continuamente sottoposti ad un’estenuante violenza senza mai essere completamente dissolti. Pensiamo allo scomparire del corpo della Madonna nel movimentato sfondo dietro di essa, alla liquidità dei corpi in Uomo e donna, al pastoso viso dei due amanti centrali ne La danza della vita e della donna china su se stessa in Donne in ospedale oppure allo stesso grado di dissoluzione della forma a cui giungono tele come Il grido e Sera sulla via Karl Johann (1892).
Tutto in Munch indica un processo di fusione che non arriva mai a compiersi totalmente. Una degradazione del soggetto e dell’ambiente che non arriva mai al grado 0. Questa incompiutezza, il persistere del soggetto e del reale anche nella lacerazione e nella dissoluzione è precisamente il motivo di tanta tragicità. Se il soggetto fosse integro non percepiremmo alcunché di tragico e se fosse completamente dissolto allora il conflitto sarebbe placato e il dolore spento; non vi sarebbe quindi quel senso del dramma che tanto caratterizza lo stile dell’artista norvegese. Certamente la potenza tragica di Munch si esplica anche nella scelta delle tematiche e dei soggetti ma quello che più colpisce è indubbiamente la drammaticità insita nel suo fare pittorico stesso, nel grado di disfacimento della figura a cui egli giunge lasciandoci sempre lì in quel bilico altalenante e conflittuale tra una morte che non si compie e una vita che divora.

NOTE
[1] Edvard Munch, “Il grido” – Scritti sull’arte e sull’amore, Pistoia, Via del vento, 2002.
[2] Ulrich Bischoff, Edvard Munch - Immagini di vita e di morte, Taschen, 1994, pag. 42.
[3] Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del novecento, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 45.
[4] Ulrich Bischoff, Edvard Munch - Immagini di vita e di morte, Taschen, 1994, p. 42.
[5] Erik Mørstad, Il linguaggio formale di Edvard Munch: formule e caricature, in AA.VV., Munch, Øivind Storm Bjerke – Achille Bonito Oliva, a cura di, Ginevra-Milano, Skira, 2005, p. 47.
[6] Øivind Storm Bjerke, Il maestro del “non finito”, in AA.VV., Munch, Øivind Storm Bjerke – Achille Bonito Oliva, a cura di, Ginevra-Milano, Skira, 2005.
[7] Ibidem.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
AA.VV., Edvard Munch, Rudy Chiappini, a cura di, Ginevra-Milano, Skira, 1998.
AA.VV., Munch, Øivind Storm Bjerke – Achille Bonito Oliva, a cura di, Ginevra-Milano, Skira, 2005.
Armiraglio Federica, Munch (I classici dell’arte. Il novecento), Rizzoli-Skira, 2004.
Bischoff, Ulrich, Edvard Munch - Immagini di vita e di morte, Taschen, ed. del 1994 e del 2001.
De Micheli, Mario, Le avanguardie artistiche del novecento, Milano, Feltrinelli, 2000.
Di Stefano, Eva, Munch, Giunti (Art dossier), 1994.
Munch, Edvard, “Il grido” – Scritti sull’arte e sull’amore, Pistoia, Via del vento, 2002.

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