Nina Maroccolo

Le fratture dell’animamadre

 

Avevo cinque anni e i diavoli intorno.
Belzebù si presentò per primo. Onnipotente, dichiarava prodigioso l’avverarsi della maggior parte della terra, da lui seminata e resa fertile in una sola notte, durante il miracolo della Creazione.
Sfidò Dio. Osò confrontarsi con lui, atomo eccelso; e Dio rispose, trasformando la terra in mare.
Il demone fu castigato. Sospinto nei fondali oceanici per avere profanato il marchingegno divino, visse eternamente malanimo, nonostante gli fosse riconosciuto – quale derivazione della sentenza morale – un travaglio da rispettarsi; un sottintendere virile dell’esistenza infera, del suo svolgersi turlupinante nell’architettura dell’universo.
Prototipo di forza, Belzebù si annidò tra le innervature dei flutti, simili a criniere di cavallo sospese in un perenne oscillare. La sua ferocia d’acquario brancolò nel mare convulso, manifestò la tessitura liquida di sentimenti dolorosi: “Quand’è che finirà quest’iniquo atto vitale?”.
Il demone decise di non soccombere alle intense affermazioni di vita.
E lo fece, attraverso l’odio.

Teresa lo sapeva bene: “Che carogna! Che jattura! Come se il diavolo avesse un’anima… Le mie blatte ce l’hanno!”.
Teresa, detta La pubescente, si presentò per seconda, sotto lasciapassare del medesimo buon Dio. Aveva sedici anni, latrava come un’erinne, ed un fiato pestilenziale le negava bellezza.
Le blatte erano le sue creature preferite.
Fautrici dell’ombra vorticavano nel cono della sua anima, e mai rendevano giustizia ai miei occhi, a quell’ideale condizione di sguardo che allora mi coglieva impreparata per le cose invisibili. O, forse, la storia era conseguenza d’una vivace fantasticheria: poco più di un vezzo immaginativo che in toni lievi conformava a Teresa e a me, suo animale umano preferito, un’interiorità fragile, d’approccio aurorale. Sempre teso al limite, al declino.
Questo limite aveva un’ampiezza equivalente alla gravità dei fenomeni psichici in via d’evoluzione: follia, disagio, o pura criminalità adolescenziale.
– Ne vuoi vedere una? Non so, la Blatta della Vendetta…
Teresa porgeva gentilmente la richiesta.
Solitamente m’impaurivo. La sua affabilità disponeva di venature sghembe, sangue gelido. Era una grazia mercenaria talmente motivata, da rendere impossibile qualsiasi rifiuto.
Lei lo sapeva. Sapeva le mie reazioni al gelo. Non avrei proferito suono.
Avrei appena oscillato un no con la testa.

Sublimando un Notturno di Chopin, Vendetta mi avrebbe presa d’assalto la notte medesima, gloriosa sulle mie spoglie mortali, rese vane dagl’insostenibili patimenti.
Sotto il fortino delle coperte, all’alba, sarei crollata in stato di tregua, addormentandomi.
La rappresaglia era altresì compiuta.

Le uniche blatte che io conoscessi le vedevo di tanto in tanto la sera, dietro le piante innaffiate da mia madre, sotto le foglie morte. O nei pressi della spazzatura, che usavamo depositare accanto all’uscio di casa.
Splendenti sotto i raggi lunari, le osservavo avanzare in una apparente moltitudine di zampette, curiose postille del corpo nerocorazzato.
In quel procedere inesorabile, testa piegata, quasi depressa, temevano forse umano l’esilio di carne. Di sicuro aspiravano a congiungersi ad una superba visione esistenziale, ottenebrata sì, ma orgogliosa di quell’oscuro primato.
Il nero, in fondo, è privo di dubbi. Sta sempre lì, nello smisurato biancore della neve. Quindi proseguivano verso un auspicabile osservatorio cosmico: l’animamadre teresiaca.
La pubescente le accolse.
– Davvero non ne vuoi vedere una?! – continuò Teresa, mai sfiancata dai suoi terribili giochetti –Che so, la Blatta dell’Invidia… Sai, questa figlia adora il silenzio. Purtroppo non riesce a divincolarsi da un parlare ininterrotto che la rende insopportabile.
Non conosce gioia, né allegria. Vorrebbe essere avvolta da un sentimento di vaghezza, uno spleen scarabeide; meditare il silenzio e oltrepassare il sonoro: astio, livore, gelosia.
Lo identifica in te… Che jattura! Obiettivamente, non parli… Dovresti disseminare questa tua forma di silenzio, dimenticarla; lei, invece, acquisirla. Dunque procurarti un forte turbamento, cosa che mi è congeniale, non credi?!
Ed ecco la soluzione: infilarti spine di riccio nell’ugola per costringerti a vibrare a squarciagola! In fondo ti faccio un favore… Ma Invidia non vuole. Strano a dirsi, lei confida in un evento provvidenziale. Eppure, ad un pensiero violento segue un atto violento: altrimenti, non si chiamerebbe invidia!
Lei, figlia, mi sovverte, corrotta dallo spirituale ingannevole. Desidera attraverso l’operato del Signore! Mah! Roba da non credere… Avesse almeno invocato Belzebù!
Ma tu pensa: Dio che agisce in mio favore!!!
Che vergogna! Che jattura! Quale spleen, raggiunto con la vergogna… –

[ Quel giorno chiesi a mia madre di controllarmi minuziosamente il mangiare, e se notasse qualche alterazione del mio respiro: quando scoprii che a pranzo ci avrebbe cucinato pesce e ricci di mare ]

Teresa enunciava questi esserini amabili e pieni di garbo come misteri da riservare al mondo diurno. Dopodiché li riconduceva trasmutati a persone o cose viventi, brandendo ovunque la sua malvagità.
Le blatte emanavano le fratture dell’animamadre, le sue pene immedicate.
Nell’infinito inverno scavato nel petto.
Radicarono nel regno dell’ombra insieme ai resti disanimati del divino. Laggiù, in fondo, dove soggiacevano coaguli di dolore. Nello sterminato mondo infero.
Ombra, e poi ancora ombra.
Di fronte alla cospicua presenza della chiarità.
“Perché il male è una cosa seria, e va riconosciuto sempre,” diceva il malandato Belzebù.