Marco Tabacchini

Della tauromachia
(Avvicinamenti I,1)

Matar

Quale trappola d'azzurro
s'è aperta all'apparir della folgore
concluso il pellegrinaggio lontano
Mecca di carne fremente
minareto d'ossa per le grida del sangue fresco

Michel Leiris

Pablo Picasso, Scène bachique au Minotaure, 1933.

Apparso nel 1938 in margine al progetto di «Acèphale», il Miroir de la Tauromachie di Michel Leiris avrebbe dovuto inaugurare una serie di quaderni dedicati al tema dell'erotismo. Leiris, seguendo l'indirizzo già manifestato dalla rivista, rilegge la tauromachia inserendola nella dialettica che lega sacro destro e sacro sinistro, attraverso le somiglianze che essa condivide con la pratica erotica. È il legame tra erotismo e morte, così come tra erotismo e sacrificio, ad essere messo in luce grazie alla tauromachia. Attraverso parallelismi incentrati sul ritmo dei passaggi, sull'eccesso costituito dall'uccisione, nonché sull'ebbrezza del pericolo, toro e torero sono così paragonati al rapporto erotico che unisce uomo e donna, in quell'unico movimento di perdita intensa che è l'atto sessuale.

«Nel passaggio tauromachico, come nel coito, si assiste a un'ascesa verso la pienezza (avvicinamento del toro), poi al parossismo (il toro che s'immerge nella cappa sfiorando con il corno il ventre dell'uomo con i piedi ben saldi); infine la separazione dei due attori, la divergenza dopo l'intimità del contatto, la caduta, lo strappo»[1].

Il progetto di quaderni per «Acèphale» avrà vita breve, arrestandosi solo al primo numero, ma il Miroir de la Tauromachie continuerà a circolare e ad essere letto, fino a comparire, vent'anni più tardi, tra i ringraziamenti in apertura a L'érotisme di Bataille, libro che l'autore dedica esplicitamente all'amico Leiris[2]. In Bataille si ritrovano puntualmente numerose delle situazioni descritte a proposito della tauromachia, dalla vertigine causata dalla possibilità di un contatto al motivo della fusione degli esseri, dal desiderio di trasgressione al discorso sul sacrificio, dall'attrazione per l'aspetto sinistro del sacro all'importanza concessa allo scatenamento della carne e dell'animale. Tuttavia è come se nello scritto di Bataille siano penetrati ben più che semplici suggestioni o motivi ricorrenti: ad essere ereditata da Leiris è, in realtà, tutta una meccanica del dispositivo sacrificale, insinuatasi fino al cuore del pensiero batailleano dell'erotismo. Ciò che viene mutuato dalla tauromachia di Leiris è in qualche modo la stessa modalità di avvicinamento[3] che scandisce, permette e mantiene l'attrazione erotica dell'uomo verso la donna. Ed è per questo motivo che, prima di rivolgersi allo scritto di Bataille, resta imprescindibile passare attraverso quello che potrebbe essere considerato il suo antefatto.

Arte, sport, pratica, rituale. Spettacolo... La tauromachia rigetta ed eccede tutte queste determinazioni, in qualche modo inadatte a rendere conto di ciò che veramente in essa si svolge. Da una parte, la pretesa artistica regola tutto l'evento, nel tentativo di offrire allo spettatore uno spettacolo unico; dall'altra l'estenuante ripetitività - e ripetibilità - dell'azione contribuiscono ad intessere quello che sembra un vero e proprio rituale diretto alla sua scontata conclusione: la morte della bestia. Forse l'unico termine adatto per definire la tauromachia è quello di esecuzione, preso nella sua accezione più densa. In primo luogo, essa è esecuzione in quanto non un gesto, non un movimento sono lasciati al caso, tutto è stato studiato, preparato nei minimi dettagli: una tecnica perfezionata interviene a dirigere la corrida verso il suo finale. Questa è la particolarità della corrida, intrattenersi con il toro, senza mai concedergli nulla, creare un'azione portandolo a partecipare, spingendolo verso la sua stessa morte. L'importante è questo gioco di spazi e di tempi in cui il toro è come guidato nei suoi movimenti. Templar[4] è il termine tecnico per questo lavoro incessante di moderazione dell'esuberanza animale - di cesellamento del suo impeto, di compressione delle sue linee di fuga - e che sembra definire i passaggi di un vero e proprio rituale:

«Assistendo a una corrida, sembra dunque che ci si trovi, malgrado l'ampia parte che si ritaglia la sorte, in presenza di un rituale impeccabilmente regolato: trattamento sapiente dell'elemento sinistro, sempre più espressamente situato, cioè definito e “addomesticato”, in modo da poter essere annientato di colpo e cedere il posto al destro»[5].

Solo quest'ordine generale permette la perfezione dell'esecuzione, l'acclamazione della folla che esprime il proprio consenso di fronte allo spettacolo. La tauromachia rivela così la sua parentela con il teatro più tradizionale, con la commedia in cui già tutto è stato deciso prima ancora che gli attori si affaccino sul palco per mostrarsi al pubblico. Resta soltanto il brivido dell'incertezza, il soffio del caso, a movimentare un atto ormai ripetuto e codificato in ogni particolare. Ma anche questa incertezza non è lasciata agire liberamente, a tal punto essa è voluta - prima ancora che saggiata e dosata - al fine della riuscita più spettacolare. Sapere e preparazione si uniscono nel sottrarre la vita del torero dall'imprevedibilità del toro, fiaccata da una lunga lavorazione prima dell'atto finale dello spettacolo:

«Il pericolo corso dall'uomo in questo confronto finale dà alla corrida la sua nobiltà. Ma l'uomo non potrebbe arrischiarvisi se la violenza della bestia fosse in quel momento ancora integra. Temperare questa violenza e disciplinarla: ecco la funzione assolta dalle diverse fasi della corrida»[6].

L'assalto delle picche e delle banderille forma così l'immagine di un toro ammaestrato, e tuttavia ancora furioso, attraverso la spessa coperta delle ferite insistenti. Inquadrare il toro, confinarlo nello spazio e nei movimenti dettati dalla volontà dell'uomo, questa è l'azione più importante e decisiva. Non tanto docile, ma quasi rassegnato alla stoccata finale, il toro abbassa così la testa per la stanchezza ed il dolore, perdendo quella maestosità che l'aveva condannato a calcare l'arena, ormai pronto per la messa a morte. Non bisogna mai dimenticare infatti che è questo il suo fine specifico: rinsaldare la complicità tra torero e spettatori, escludendo il toro ormai prostrato. Nel momento in cui strappa alla vittima taurina la sua grandezza, nel momento in cui si fa beffe del disordinato furore animale, il torero è pronto per essere ammantato dalla gloria delle acclamazioni profuse dalla folla, desiderose di esprimere la propria approvazione e il proprio consenso. È forse questo uno dei motivi per cui Leiris e Bataille, affascinati dalla meccanica del sacrificio, hanno rivolto il proprio interesse per la corrida, forma di calco profano dell'immolazione sacrificale, in cui carnefice e spettatori sono rinserrati in un unico movimento volto ad escludere dal loro mondo la vittima[7].

Fotografia di Michael Crouser

Ormai è chiaro che non si tratta altro che di una misera vittima, e non di uno sfidante, di un pericoloso avversario. Né tanto meno di un tragicomico dio costretto ad esibirsi sul palcoscenico della propria morte. Nessuna retorica della maestosità o della fierezza taurina può dopotutto evitare all'animale l'umiliazione finale a cui è già da sempre destinato. La corrida così rivela ancora una volta che la sua prestazione specifica è quella di essere un'esecuzione, ma non solo nei termini di azione meticolosamente elaborata. Essa è un'esecuzione capitale, una messa a morte. È infatti a ciò che si riferisce persino il nome del torero principale, il matador, indicando qualcosa più di una premonizione o di un augurio: «per un toro non ci può essere vittoria...»[8].La corrida è l'esecuzione esemplare di una concatenazione di atti, di saperi e di sguardi che devono tutti convergere e «concludersi con una messa a morte [...]: tutte le azioni compiute sono preparativi tecnici o cerimoniali per la morte pubblica dell'eroe, quel semidio bestiale che è il toro»[9]. Ancora una volta l'immagine di grandezza con cui l'uomo identifica il toro si riversa immediatamente nell'attribuzione di un verdetto di morte. Eroe in partenza, il toro è costretto a mimare come una marionetta di carne la tragedia della propria detronizzazione, scritta e diretta dall'uomo che ne usurperà la grandezza in un primo tempo concessa. Ma solo per poi ribadire la propria supremazia nella vittoria, «poiché uno dei due avversari, il toro, sconfitto in ogni caso, è condannato in anticipo»[10].

«Le torero prête/héros atemporel exalte les pulsions des êtres suspendus aux plus infimes de ses gestes»[11], proprio in consonanza con l'aspetto grave e angoscioso che il sacrificio richiede. Prete che immola una vittima già destinata, ma che tuttavia deve dimostrare di essere anche eroe, di aver anche rischiato la propria vita nella vicinanza con questo nuovo minotauro. Qui sta appunto la complicità tra gli spettatori e il torero: il catturare la vittima nelle maglie di una commedia che tuttavia le sfugge, che non le parla, che non oltrepassa quell'idiozia di toro circondato dalla folla. Tra il toro e il suo uccisore non vi è affatto collaborazione, ma un consumo sfrenato della carne della bestia, dei suoi movimenti, così come della sua immagine, fino al punto di massimo parossismo, l'istante della morte, in cui la folla estasiata contempla lo «scroscio di sangue che trasforma il toro in un favoloso animale araldico»[12]. Abanico para los toros, ventaglio per i tori: la raccolta di poesie di Leiris non può che ricordare quel ventaglio di sangue che, pietosamente, ricopre la nudità della carcassa dell'animale, e che la sottrae a quegli sguardi ancora ansiosi di prodigio. Solo la conclusione dello spettacolo, una volta strappate le ultime esclamazioni alla folla, mostrerà la carne in tutta la sua ingombrante ed oscena pesantezza. È L'ora della verità, come scrive giustamente lo stesso Leiris:

«Ricevuto il giusto peso di ferro / pagato il debito di sangue / la sfinge da pelo umido stramazza / carico losco abbandonato da mercanti / in fuga di deserto in deserto»[13].

Ecco il toro ucciso, giocattolo rotto e rinnegato da coloro che fino a poco prima riponevano in lui ogni soddisfazione di grandezza e di gloria. «Appena il toro è stramazzato, ogni magia scompare e la tragedia è bruscamente ridimensionata a carneficina. Sulla vasta distesa di sabbia giace ormai solo una sordida spoglia»[14]. Solo a questo punto l'animale, quel che ne resta, verrà spogliato di ogni mito, denudato di ogni dignità, ammassato assieme alle carcasse dei cavalli, per i quali la corrida si era rivelata da subito come macello[15].
Paradossalmente, è forse questo, il momento della rimozione della carcassa scomposta, ad essere anche il momento in cui, troppo tardi, uomo ed animale si toccano in quella perenne sospensione che la tauromachia deve essere. Solo quando l'ultimo barlume di vita è stato definitivamente strappato all'animale, l'uomo può concedersi alla vicinanza di un contatto. È infatti questa la prestazione specifica della corrida: la cancellazione di ogni prossimità, la negazione di ogni vicinanza. L'arena è il luogo per eccellenza del mancare di ogni incontro. Il luogo in cui, sul limite di un'inaudita esposizione, nemmeno un tocco accade, proprio in favore di una sua manifesta possibilità, della moltiplicazione vertiginosa e tuttavia controllata di queste. Solo l'apparenza, l'illusione dei contatti deve rimanere, per coinvolgere nel gioco il pubblico desideroso e il torero: nessuna immedesimazione di sguardi sarebbe possibile senza quegli istanti di rischio in cui «ci si avvicina al punto di tangenza abbastanza per avere l'illusione della tangenza reale»[16], ma mai troppo da venire precipitati dalla vertigine. Leiris è molto attento a questo aspetto di tangenza, in cui il ritmo degli avvicinamenti devono sospendere il torero dal contagio del toro, dal suo contatto pericoloso, entro la minore distanza utile ai fini della riuscita dello spettacolo.

«Sta di fatto che, nel complesso, per quanto grande possa essere l'efficacia tecnica o la qualità spettacolare di un passaggio di cappa o di muleta, l'elemento capitale – quello che, più di ogni altro, determina l'emoción – è il grado di esposizione dell'uomo rispetto all'animale e la durata di tale esposizione»[17].

A fronte della costitutiva esposizione, nella corrida è come se l'uomo volesse in qualche modo venire a capo di questa stessa esposizione, afferrarla, deciderla per marcare il distacco con l'animale, volgerla in suo favore: un'esibizione dell'esposizione, rappresentata nei termini di un gioco di distanze. Mai troppo, mai troppo poco, la misura degli sguardi e dei passi calcolati è essenziale, per evitare il toro e sferrare il colpo, per illudere gli spettatori e coinvolgerli nell'azione. Balza subito agli occhi il nesso che lega la tauromachia a quel movimento immunitario che esclude la prossimità dell'animale, includendolo in forme controllate nei dispositivi atti al suo contenimento: «cos'altro implica, l'immunità, se non l'assicurazione nei confronti di un rischio futuro pagata attraverso la sua assunzione preventiva in dosi sostenibili?»[18]. In dosi, ma anche in forme sostenibili, tra le quali quella di una messa a morte spettacolare, mascherata con la leggerezza del gioco e la gloria del sacrificio.

Fotografia di Michael Crouser

È l'incontro con il toro, pelle contro pelle, che viene evitato con tutti i mezzi permessi dall'esecuzione (ma cosa non è permesso, dopotutto, nello svolgersi di una messa a morte?). A questo il torero è stato addestrato, protetto con le tecniche più efficaci ed esemplari: sfuggire al contatto col toro, e dirigerlo verso lo spettacolo della morte. Non si tratta soltanto del pericolo costituito dalle corna e delle zampe, ma più che altro dalla perfezione del lavoro che ne deve conseguire, dalla gloria che deve scaturire dalla più minuziosa bravura, coincidente con il più deciso isolamento nei confronti della bestia. Giocare sugli sfioramenti, calcolare le giuste distanze, al fine di creare uno spettacolo ottico tra i più coinvolgenti. È a questo che il torero pensa una volta entrato nell'arena: egli non vede il toro, vede la promessa della gloria («il torero di fronte al toro, di fronte a uno specchio cattivo»[19]). Egli deve aggrapparsi a questa immagine, rinchiudersi in se stesso, sospendersi e dominare ogni impulso, se desidera che la corrida decreti un vincitore. «Occorre che l'uomo sia abbastanza padrone di sé perché la bufera resti sospesa»[20]. Non un incontro è possibile tra toro e torero, laddove prima un'immagine e poi spada e cappa si pongono come intermediarie. Questa è l'essenza della tauromachia, l'opporre la massima esposizione al più rigoroso controllo. Solo così lo spettacolo può continuare senza che in realtà nulla accada, senza che nulla turbi l'equilibrio in cui uomo e animale si contrappongono nell'apparenza di una sfida, ma dove l'animale è solo un pretesto per sfidare la propria fragilità, ed avere ragione su di essa. A questo è dovuta l'aura mitica e quasi maledetta che per Leiris ammanta il matador, discendente di Don Giovanni o degli eroi romantici:

«Il torero, insomma, con le sue evoluzioni calcolate, la sua scienza, la sua tecnica, rappresenta la bellezza geometrica sovrumana, archetipo, l'idea platonica [...] in relazione – di contatto, di sfioramento o di minaccia costanti – con la catastrofe del toro, sorta di mostro o di corpo estraneo, che tende ad avventarsi, al di fuori di tutte le regole, come un cane che rovescia file di birilli ben allineati come le idee platoniche»[21].

Questo è il pesante compito che grava sulle spalle del torero, difendere quest'ideale di bellezza e perfezione apollinea dalla vicinanza con la sinistra e ripugnante forza della bestia, sentita in tutta la sua estraneità. O meglio, immaginata in questa estraneità che sola permette la freddezza e il rigore della sospensione nell'esecuzione. Il torero non incontra il toro, sì è già visto; al limite non lo vede nemmeno, a tal punto il suo sguardo è accecato da questo compito. Solo al termine della partita, scrive Leiris, egli potrà concentrarsi davvero sul toro. Ma solo per confermare l'inappellabile condanna. «Con un tratto di penna cancella le idee fisse che gli sottraevano il toro. Non resta altro che cancellare il toro, prima che il toro lo cancelli».[22]


Post-scriptum

Introducendo le opere che Laura Panno ha raccolto sotto il titolo Tauriform, John Yau ripercorre brevemente la sopravvivenza del mito taurino rispetto alle singolarità che di volta in volta son state incaricate di incarnarlo. Un mito che si è districato nel corso dei secoli, facendo del toro di volta in volta segno divino, acerrimo nemico, seduttore, mostro, in ogni caso una sorta di emissario del sacro. Ed è proprio questa densità simbolica particolare, questa carica significante accumulatasi nei secoli che rende difficile, ora più che mai, un incontro con ciò che il toro è, con ciò che da sempre è stato rivestito con pesanti attribuzioni. «Il toro si trova dappertutto, finanche nel cielo»[23] e tuttavia è come se questo dappertutto non coincidesse mai con una vera presenza, come se la sua disseminazione simbolica dovesse relegare l'effettiva singolarità nell'eterotopia più inaccessibile: essa pare, in qualche modo, «rinchiusa nella storia e nei miti che la circondano, per sempre prigioniera di quel modo di vedere, di pensare»[24]. Che le opere della Panno tentino in qualche modo di disattendere queste incrostazioni, queste barriere di senso, è fuori da ogni dubbio. I suoi lavori in carboncino ed encausto, in particolare, sembrano indirizzati a raschiare dalla pelle del toro gli scomodi sedimenti mitologici, nell'attesa che a comparire sia la massa di carne nella sua nudità (Yau, a ragione, parla del sudore quasi presente dell'animale). E tuttavia, questa attesa, questa speranza, queste lavorazioni, non sono ancora degli avvicinamenti? Non lo erano, dopotutto, anche gli splendidi dipinti di Lascaux, antichi progenitori di queste linee taurine? Forse la forza della Panno è proprio quella di mostrare il fallimento di questi avvicinamenti. Catturando un semplice particolare, facendo presa su un solo dettaglio – le froge, un occhio, un corno – ecco che tutto il resto sfugge e fila sulle sue linee di fuga, senza che l'immagine possa condensarsi nella sua totalità. Nessun avvicinamento è qui possibile, nel momento in cui tutto scivola al di là di ogni presa, «è come se non avessimo avuto il tempo di considerare la bestia nella sua totalità»[25]. Troppo vicina, troppo distante, rispetto a lei ogni giusta misura pare impropria sia nell'eccesso fantasmatico del mito che nel difetto dovuto all'incapacità di sostenere la sua presenza effettiva (ed eccessiva).

NOTE
[1] M. Leiris, Specchio della tauromachia, in id., Specchio della tauromachia e altri scritti sulla corrida, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 35.
[2] Cfr. G. Bataille, L'erotismo, SE, Milano, 1997, p. 10-11: «Desidero ricordare qui che il tentativo è stato preceduto dal Miroir de la Tauromachie di Michel Leiris, dove l'erotismo è considerato alla stregua di un'esperienza legata a quella della vita, non come oggetto di scienza, bensì di passione o, per esprimersi in modo più profondo, d'una contemplazione poetica».
[3] Chiameremo avvicinamenti i movimenti regolati - da divieti, da saperi, da dispositivi - che derivano da un desiderio o una volontà di contatto, ma che, ineluttabilmente, perdono così l'effettività di un incontro.
[4] Cfr. M. Leiris, Abanico para los toros, in id., Specchio della tauromachia e altri scritti sulla corrida, cit., p. 87: «Il temple – lentezza ritmica con ci si esegue un passaggio di cappa o di muleta: i movimenti dell'uomo, della stoffa e del toro vi appaiono sottoposti a un ordine maestoso e miracolosamente sincronizzati – costituisce la qualità artistica per eccellenza».
[5] M. Leiris, Specchio della tauromachia, cit., p. 44.
[6] M. Leiris, La corrida, in id., Specchio della tauromachia e altri scritti sulla corrida, cit., p. 142.
[7] Inoltre, la corrida sopperisce a quell'aspetto di puerile commedia che nel sacrificio richiede almeno l'illusione di un rischio per il sacrificatore stesso; il suo carattere è così «doppiamente tragico per il fatto che c'è messa a morte e messa a morte con rischio immediato per la vita dell'officiante». M. Leiris, Specchio della tauromachia, cit., p. 21.
[8] M. Leiris, La corrida, cit., p. 161.
[9] M. Leiris, Specchio della tauromachia, cit., p. 21.
[10] Ivi, p. 20, n. 5.
[11] V. Fauchier, La tauromachie comme expérience dionysiaque chez Georges Bataille et Michel Leiris, Atlantica, Anglet, 2002, p. 13.
[12] M. Leiris, Abanico para los toros, cit., p. 115. Cfr. Laure, Écrits de Laure, Jean-Jacques Pauvert, Mayenne, 1971, p. 141: “Imaginez une corrida pour vous tout seul. J'ai besoin du public”.
[13] Ivi, p. 109.
[14] Ibidem.
[15] Bisogna a questo punto pensare anche alla carneficina di cavalli impiegata nelle prime fasi dell'intrattenimento. Essi tuttavia non acquisiscono mai la magnificenza della vittima prescelta, giacendo dimenticati, nello sforzo degli spettatori di evitarne lo sguardo. Ed è forse lo sterminio dei cavalli l'atto più abietto, e contemporaneamente più nudo, meno dissimulato, della tauromachia (Cfr. M. Leiris, Specchio della tauromachia, cit., p. 41: «Per quel che riguarda le vittime animali, la distribuzione delle parti era stata giudiziosamente stabilita fin dall'inizio: al toro, la morte nobile, inferta con un colpo di spada; ai cavalli passivamente sventrati, il ruolo di latrine, o di capri espiatori, su cui riversare tutto l'ignobile»).
[16] M. Leiris, Specchio della tauromachia, cit., p. 46.
[17] Ivi, p. 26.
[18] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002, p. 37.
[19] M. Leiris, Tauromachie, in id., Specchio della tauromachia e altri scritti sulla corrida, cit., p. 5.
[20] Ibidem.
[21] M. Leiris, Specchio della tauromachia, cit., p. 26-27.
[22] M. Leiris, Tauromachie, cit., p. 13.
[23] J. Yau, Opere recenti di Laura Panno, in L. Panno, Tauriform, Skira, Ginevra-Milano, 1999, p. 11.
[24] Ivi, p. 12.
[25] Ivi, p. 13.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Bataille, G., L'erotismo, SE, Milano, 1997.
Esposito, R., Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002.
Fauchier, V., La tauromachie comme expérience dionysiaque chez Georges Bataille et Michel Leiris, Atlantica, Anglet, 2002.
Laure, Écrits de Laure, Jean-Jacques Pauvert, Mayenne, 1971.
Leiris, M., Specchio della tauromachia e altri scritti sulla corrida, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
Yau, J., Opere recenti di Laura Panno, in Panno, L., Tauriform, Skira, Ginevra-Milano, 1999.

BIBLIOTECA CORRELATA
Agamben, Giorgio, L'Aperto. L'uomo e l'animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.
Caillois, Roger, L'uomo e il sacro, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
Derrida, Jacques, L'animale che dunque sono, Milano, Jaca Book, 2006.
Girard, René, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 2003.
Girard, René, La vittima e la folla, Treviso, Santi Quaranta, 2001.

Marco Tabacchini - ekeskog@hotmail.it